Quaderni della Pergola - Dove eravamo rimasti - Fondazione Teatro della Toscana

“Niente di più futile, di più falso, di più vano, niente di più necessario del teatro” Louis Jouvet

1 Quaderni della Pergola | È a causa di quei giochi che hanno riempito la mia infanzia, poi tutto il tempo della mia giovinezza, quei giochi dove si mescolavano verità e poesia, è per ritrovarli e per continuarli, io credo proprio, che, essendomi innamorato del teatro nello stesso tempo che della vita, io me ne sono avvicinato tardivamente, chiedendogli forse più di quanto non potesse darmi. Ed è senza dubbio perché niente di impuro, niente di grossolano né di brutale offendesse queste fantastiche magie che avevo sognato, che ho voluto disfare e ricomporre lo strumento del teatro, come un bambino che smonta il suo giocattolo, al fine di distoglierlo, per così dire, dal suo senso primo, dalla sua banale accettazione, e di costringerlo a diventare il segno ben visibile di un capriccio superiore dello spirito. Jacques Coupeau

2 | Quaderni della Pergola 4 Stefano Massini IL TEATRO DELLA REALTÀ “Il teatro è nato, sia nella tragedia sia nella commedia, come uno strumento di denuncia, un luogo critico in cui la vita della polis veniva sezionata come in una biopsia laica” 10 Lino Musella TAVOLA TAVOLO CHIODO CHIODO “Il talento, quello vero del teatro, è la costanza. Non bisogna mollare mai, l’azione energetica deve essere paziente e mai interrotta, soprattutto nel rapporto con il pubblico” 15 Eduardo una speranza tutta napoletana 16 Sonia Bergamasco LA MIA VOCE, IL MIO CORPO “Il mestiere di attrice è sicuramente una professione, ma anche qualcosa di più” 21 Luca Micheletti L’ATTORE È UN LADRO “Facevo la gavetta e ‘tritavo spettacoli’, perché ho una storia che proviene da una Compagnia plurisecolare di artisti girovaghi” 27 Centro Internazionale di Cultura Teatrale 28 Emmanuel Demarcy-Mota Il potere dell’immaginazione “Nostro obiettivo primario è lavorare sull’idea di un Teatro-Mondo”

3 Quaderni della Pergola | 32 Vincent Mambachaka Alziamoci in volo insieme “È ciò che di me voglio comunicare agli altri a costruire un passaggio tra esseri umani” 34 La passione per la verità Diario di bordo 40 Vinicio Marchioni NEL FUOCO DELLA PASSIONE “Giorno per giorno il mestiere dell’attore evolve assecondando le trasformazioni della società. Bisogna toccare un panorama internazionale” 44 Fernando Arrabal Per amore, solo per amore “Sono un poeta e comprendo ‘i rinoceronti̕ che ci circondano” 46 Futuro presente I giovani da La dodicesima notte a Il giardino dei ciliegi 52 Che cos’è per voi il pubblico? Gli artisti si raccontano 62 Voci dalle poltrone La parola al pubblico 66 La Storia racconta… 68 ESSERE GLAUCO MAURI Laurea Honoris Causa 72 Dietro le quinte L’amministratore di compagnia 74 Fuori e dentro il teatro, racconti brevi… Un irresistibile richiamo 76 La poesia 77 Omaggio al Maestro Maurizio Scaparro 78 A proposito di Orazio Costa Le regole del gioco

4 | Quaderni della Pergola Stefano Massini IL TEATRO DELLA REALTÀ Come è nato il progetto di Bunker Kiev? Di solito il teatro necessita sempre di un tempo, di un certo diaframma temporale fra la realtà e la sua narrazione in forma teatrale: c’è bisogno di scrivere, dirigere e organizzare… In questo caso abbiamo voluto invece lanciare un grido d’allarme immediato, dimostrando che il teatro può anche essere in grado di recepire in modo istantaneo il diktat della realtà. Il richiamo alla realtà è estremamente profondo, è la reazione ad un’urgenza: c’è un conflitto alle porte dell’Europa che coinvolge una potenza nucleare come la Russia, mentre un popolo sta vivendo la guerra sulla sua pelle. Potrebbe capitare anche a noi di vedere la nostra vita completamente stravolta da un giorno all’altro e trovarci costretti a scendere dentro a dei buchi sottoterra – i bunker, appunto – per salvarci dal mondo esterno in cui sta accadendo ogni tipo di orrore. Nella tradizione del teatro questa forma di narrazione diventa vitale e necessaria: da Ecuba a I sette contro Tebe, dal Brecht di Madre Coraggio e i suoi figli (scritto agli albori della Seconda guerra mondiale, quando il mondo trattenne il fiato per quello che sarebbe potuto accadere tra le diverse superpotenze, proprio come sta succedendo adesso per la nostra generazione) passando per Shakespeare, che nelle sue opere racconta di tante guerre e le condanna. Oggi credo che sia importante descrivere questi fatti stando dentro una metafora: il teatro vive di metafore e il modo in cui Bunker Kiev avviene è esso stesso una metafora. Un’azione drammatica rigorosamente riservata a un gruppo ristretto di persone alla volta e che eccezionalmente vengono condotte nei sotterranei del Teatro della Pergola, fino a raggiungere uno spazio ristretto e semibuio, un luogo, grazie anche all’ambiente sonoro a cura di Andrea Baggio, assimilabile ai 4984 bunker di Kiev in cui gli ucraini si rifugiano dai missili russi, mentre il brano musicale finale è composto ed “Il teatro è nato, sia nella tragedia sia nella commedia, come uno strumento di denuncia, un luogo critico in cui la vita della polis veniva sezionata come in una biopsia laica. Noi ci troviamo a raccoglierne l’eredità” di ANGELA CONSAGRA

5 Quaderni della Pergola | FOTO FILIPPO MANZINI

6 | Quaderni della Pergola eseguito per l’occasione da Piero Pelù. Sono gli stessi spazi che fungevano da rifugio antiaereo per gli abitanti del centro storico nella Firenze occupata dai nazisti. Durante il passaggio del fronte a Firenze, il cosiddetto “periodo d’emergenza” dell’estate 1944, la Pergola era normalmente chiusa al pubblico, ma non ai suoi “abitanti”, a cui si aggiunsero anche alcune famiglie che vivevano nei pressi dei ponti distrutti dai tedeschi per rallentare il passaggio degli alleati. Ritornare in questi luoghi con Bunker Kiev è un po’ come dimostrare che, in tutti questi decenni, l’Occidente non ha imparato la lezione. Si evoca quel senso di solitudine e al tempo stesso di estrema condivisione, quei momenti di paura e di profondo abbandono che si possono provare quando tenti di salvarti la vita. E sopra di te sai che l’umanità dà il peggio di sé. Com’è scandito il tempo all’interno di un bunker? Io racconto come molti dettagli, a cui in genere non si pensa, diventino sostanziali nel momento in cui la tua esistenza viene scandita dal rifugio nel bunker. È un rituale che viene comunicato in diretta TV con spot che si susseguono ogni tre-quattro minuti: “Quando senti l’allarme antiaereo devi portarti nel più vicino luogo protetto.” E questi ambienti sono circa cinquemila, in tutta Kiev, e sono ovunque: in un seminterrato, in un magazzino, in una stazione della metropolitana, nel deposito di un cinema o di un mercato ortofrutticolo. Sono diversi i luoghi in cui ti trovi costretto a stare per un periodo di tempo che può variare, da mezz’ora fino ad alcune ore: stai insieme ad alcune decine di sconosciuti di cui non sai niente. Esci di casa la mattina per andare a lavorare, acquistare un farmaco o fare visita ad una persona che non sta bene: da un momento all’altro può accadere che suoni la sirena dell’allarme aereo e tu devi correre a rifugiarti in un buco della terra che può variare, in base a dove ti trovi in quel preciso momento. Se quel giorno sei, per tue motivazioni personali e quotidiane, vicino ad una caserma, ad un impianto militare o ad un edificio pubblico, può accadere che in prossimità ci sia un luogo bombardato: quei momenti diventano terribili, se ne va la luce, i rumori di sopra sono fortissimi… Documento relativo al censimento dei rifugi antiaerei (1941). Archivio Storico dell’Accademia degli Immobili (Teatro della Pergola). Nella pagina accanto, il manifesto di Bunker Kiev è di Walter Sardonini Dopo le prime performance, in un’ideale staffetta teatrale e testimoniale, Massini ha consegnato il testo nelle mani di altri interpreti, anche della società civile: Maddalena Amorini, Lorenzo Antolini, Greta Bendinelli, Sara Bosi, Lorenzo Carcasci, Luisa Cattaneo, Anastasia Ciullini, Hanna Donchenko (attrice ucraina), Marco Giorgetti, Luca Pedron

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8 | Quaderni della Pergola DISEGNO MAURA LA PERLA

9 Quaderni della Pergola | In passato, per esempio nei bunker dell’ex-Jugoslavia, si faceva teatro: il teatro è sempre un fatto politico? Il teatro è nato, sia nella tragedia sia nella commedia, come uno strumento di denuncia, un luogo critico in cui la vita della polis veniva sezionata come in una biopsia laica. Ecco, noi ci troviamo a raccoglierne l’eredità. Proviamo a riportare il senso di sbalestramento e di perdita dell’orientamento, anche dei più minimi punti cardinali, che possono provare i cittadini di una metropoli come è Kiev – ma potrebbe trattarsi di ogni altra città – in cui si vive sotto le bombe. Uno dei primi bombardamenti di questa guerra in Ucraina è stato quello che riguardava il Teatro di Mariupol, che aveva un bunker sotto il teatro, dove erano rifugiate moltissime persone e che furono colpite. Il fatto di raccontare certe sensazioni o immagini rende Bunker Kiev un atto forte e non un semplice spettacolo: è, a tutti gli effetti, un atto politico. Non portiamo le persone nei sotterranei con la pretesa di fargli provare realmente l’esperienza del bunker, sarebbe stupido e banale: piuttosto, il teatro smuove le coscienze attraverso la metafora. Questa operazione, che è una finzione teatrale, crea un meccanismo per cui ciò che sta accadendo passa dall’anima dello spettatore. La drammaturgia è originale, in corso di traduzione e allestimento in Francia, Germania, Spagna e Inghilterra: l’unico vincolo dato, è la disposizione del pubblico in uno spazio claustrofobico e ridotto. In Bunker Kiev ho ricucito testimonianze di persone che stanno vivendo l’esperienza del bunker: vengono raccontati determinati fatti in presa autoptica surreale attraverso articoli di giornale, video, messaggi social e blog. Il teatro è chiamato a evocare ed usare delle forme artificiali per indurre non solo alla riflessione, ma fare sentire attraverso il cuore che cosa sta davvero accadendo. Il teatro deve smuovere le coscienze, non può mai essere un luogo esclusivamente di sperimentazioni estetiche, visive, linguistiche. Spetta da sempre al teatro di denunciare la guerra e noi continuiamo a farlo oggi, con l’orgoglio di dimostrare che il teatro è un linguaggio che parla ostinatamente la lingua della contemporaneità. “Il teatro smuove le coscienze attraverso la metafora. Questa operazione, che è una finzione teatrale, crea un meccanismo per cui ciò che sta accadendo passa dall’anima dello spettatore” FOTO FILIPPO MANZINI

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11 Quaderni della Pergola | Lino Musella TAVOLA TAVOLA, CHIODO CHIODO... Dagli appunti, articoli, corrispondenze e carteggi di Eduardo De Filippo nasce Tavola tavola, chiodo chiodo..., uno spettacolo creato proprio per il pubblico e pensato nel periodo del lockdown… Il pubblico è sempre stato protagonista, fin dalla prima intuizione di questo lavoro. Durante la fase del Covid, insieme a tantissimi colleghi, abbiamo iniziato a interrogarci sul senso del teatro: soprattutto nei primi mesi di chiusura riflettevamo sulla necessità o meno dell’evento teatrale. Il pensiero era che ci trovassimo di fronte alla fase finale del teatro e che il cordone spettatori-attori si fosse, in qualche modo, reciso: il timore era che la gente avrebbe pensato soltanto a ritrovarsi nei bar e nelle piazze, forse meno nei teatri. In Tavola tavola, chiodo chiodo... il compito che ho sulla scena è di ribadire la centralità del teatro nelle politiche culturali di un paesino e di una città, all’interno di ogni singola regione e di tutte le nazioni. Credo che sia il pubblico stesso ad avere mostrato un saldo rapporto con il teatro: gli spettatori hanno risposto fin da subito al ritorno in teatro, anche quando ancora si dovevano frequentare i luoghi teatrali contingentati e con la mascherina. Il teatro è un’espressione della comunità, quindi è la stessa comunità di riferimento che reinventa l’esigenza di andare a teatro. Noi artisti cerchiamo di mantenere in vita questa necessità, creando dei sensi profondi e che siano come uno specchio della nostra realtà. Eduardo si domanda se “può un attore vivere senza il pubblico…” Per un attore vivere senza il pubblico è qualcosa di impensabile. In “Il talento, quello vero del teatro, è la costanza. Non bisogna mollare mai, l’azione energetica deve essere paziente e mai interrotta, soprattutto nel rapporto con il pubblico”

12 | Quaderni della Pergola passato abbiamo avuto certi esempi illustri di teatro che hanno fatto a meno degli spettatori, sperimentazioni anche molto importanti, ma il teatro di Eduardo De Filippo è caratterizzato da una necessità estrema e popolare, quasi animale. Non può fare a meno di incontrare le platee. Che Eduardo ha scoperto in questo studio ‘dietro le quinte’ delle sue opere? Ho scoperto un autore di cui avevo già intuito la grandezza e la profondità, emerso nelle sue pieghe più personali con la lettura del libro di Maria Procino Santarelli Eduardo dietro le quinte. Un capocomico-impresario attraverso cinquant’anni di storia, censura e sovvenzioni (1920-1970). Tommaso De Filippo (nipote di Eduardo e, quindi, figlio di Luca De Filippo) aveva molto amato il mio spettacolo sui Sonetti di Shakespeare e, siccome gestisce i diritti delle opere di Eduardo, mi ha chiamato per propormi un lavoro analogo a quello fatto su Shakespeare sulle poesie di Eduardo. Io ho preso un po’ di tempo, facendogli una controproposta: perché non concentrarsi su quegli scritti eduardiani che descrivono il suo rapporto con le istituzioni, proprio per agganciare il teatro alla realtà? Pensavo che nel periodo di crisi che stavamo vivendo forse erano mancate delle figure di riferimento, era la mente dei grandi del teatro a cui dovevamo rivolgerci. Rifugiarsi nelle parole dei grandi poeti, scrittori, filosofi, per cercare conforto, ispirazione o addirittura per trovare risposte al presente. Sapevo, grazie al libro che avevo letto molti anni prima, delle questioni burocratiche a cui Eduardo doveva continuamente rispondere: a trent’anni era già capocomico e doveva richiedere i soldi al Ministero come Compagnia del Teatro Umoristico. In una bellissima lettera il fratello Peppino scrive al Ministero per sostenerlo: “Mio fratello è un autore nazionale, non dialettale, il più grande autore dopo Pirandello”. Progredendo nel lavoro su questo autore è venuto fuori il ritratto di un artista non solo legato alla bellezza delle sue opere. Una scoperta incredibile è stata leggere di un Eduardo De Filippo fallimentare, dal temperamento donchisciottesco, ma sempre coraggioso: la chiusura del suo teatro, il San Ferdinando, è un momento tragico. Studiando anche tanto gli archivi ho conosciuto una figura veramente unica del Novecento: Eduardo ha attraversato un secolo complesso, si è fatto due guerre, ha vissuto il boom economico e il periodo delle contestazioni, ha visto Napoli cambiare ed è rimasto lucido fino alla fine, dando sempre il meglio di sé e non risparmiandosi mai. È anche un uomo che ha sofferto molto: dal ’60 al ’63 perde il San Ferdinando, gli muore una figlia di 7 anni, sua sorella Titina e anche la moglie. Dopo la raccolta della Cantata dei giorni pari, che riguarda tutte le opere prima della guerra, e la Cantata dei giorni dispari con le commedie scritte dopo la guerra, è come se da quegli anni nella sua biografia si innestasse una Terza Cantata non tanto legata alla scrittura, ma proprio umana e attoriale. “Non dimentico mai che il teatro è soprattutto il risultato di un lavoro sulla memoria, accogliendo gli spiriti delle persone che non ci sono più ma senti che ti sostengono quando vai in scena” Lo spettacolo Tavola tavola, chiodo chiodo... (produzione Elledieffe e Teatro di Napoli, ospitata nella scorsa stagione del Teatro di Rifredi) è andato in scena agli Chantiers d’Europe 2023 a Parigi grazie alla collaborazione tra Teatro della Toscana e Théâtre de la Ville

13 Quaderni della Pergola | È stato emozionante vedere da vicino queste carte originali di Eduardo e studiarle ‘dal vivo’? Profondamente emozionante, ne sono onorato. Da questo punto di vista riporto anche un piccolo aneddoto, che riguarda la scenografia di Tavola tavola, chiodo chiodo... Eravamo ancora chiusi, come detto prima, per il Covid e ci chiedevamo cosa avremmo potuto immaginare come scenografia una volta cominciata la tournée. Io dissi che, lavorando sui carteggi di Eduardo, una scrivania sul palco avrei dovuto averla e così Tommaso De Filippo offrì, per la scena, la scrivania che era veramente appartenuta a Eduardo. Gli risposi che avrei fatto delle foto per ricostruirla uguale e portarla in giro: in teatro non si usano gli oggetti originali, non me la sentivo… Alla fine Tommaso mi ha richiamato e ha detto: “Questa scrivania è in un deposito a Milano, sta ferma lì e non viene usata da nessuno. Secondo me le farebbe piacere tornare in scena”. E così è stato. Un aspetto che emerge da Tavola tavola, chiodo chiodo... è l’artigianalità del teatro. Il titolo deriva da una targa, che si trova proprio sul palcoscenico del San Ferdinando, con queste parole incise da Eduardo per Peppino Mercurio, suo macchinista per un’esistenza intera. Tavola dopo tavola, appunto, e chiodo chiodo, Peppino era stato il costruttore di quello stesso palcoscenico, distrutto dai bombardamenti. Un po’ io ci sono cresciuto con questo mito dell’artigianalità perché mi sono formato come “ragazzo di bottega” con Emilio Peluso, storico direttore di scena della vecchia scuola. Lui non aveva mai lavorato con Eduardo, ma mi citava sempre le parole di questa targa mentre mi insegnava il mestieFOTO FILIPPO MANZINI

14 | Quaderni della Pergola re. È come un motto, conosciuto soprattutto tra i tecnici e i macchinisti: costruisci il lavoro piano piano, mattone dopo mattone. Questo inciso si riferisce anche a qualcosa di tecnico: è un modo inventato per realizzare quel palcoscenico, in maniera geometrica. Rappresenta un simbolo della ricostruzione e la sottolineatura di un fatto importante: il talento, quello vero del teatro, è la costanza. Non bisogna mollare mai, l’azione energetica deve essere paziente e mai interrotta, soprattutto nel rapporto con il pubblico. Per queste ragioni il teatro deve arrivare sempre dappertutto, nelle grandi città e nelle province, che sono piene architettonicamente di teatri bellissimi. La cultura di un Paese circola attraverso una diffusione capillare delle proposte artistiche, arrivando democraticamente a tutti. E questo anche se fare un teatro di stampo più popolare è difficilissimo, perché implica inevitabilmente che si debbano fare dei compromessi. Per quanto riguarda il mio lavoro, per esempio, dopo i primi giorni di prove ho capito che dovevo individuare un compromesso di tipo attoriale: nonostante la densità del materiale da trattare in scena, così drammatico e arrabbiato, dovevo trovare il modo di divertirmi per fare divertire anche il pubblico. Il pensiero è profondo, ma occorre individuare la via del gioco del teatro, per fare rivivere il fantasma della commedia. Prima di entrare in scena ha delle scaramanzie per esorcizzare l’incontro con il pubblico? Mi sono accorto di una strana metafora che porto avanti, anche inconsapevolmente. Nell’ultima parte di Tavola tavola, chiodo chiodo... Eduardo descrive quel preciso istante, intenso e unico, prima dell’ingresso sulla scena. Dice di non sentirsi ancora pronto a entrare nel cerchio della finzione, poi vede le luci della ribalta, il baratro del buio della sala, il sipario allora che si apre… Ecco, io cammino molto in cerchio prima di entrare sul palcoscenico: forse è quello il cerchio della finzione per me? Non dimentico mai che il teatro è soprattutto il risultato di un lavoro sulla memoria, accogliendo gli spiriti delle persone che non ci sono più ma senti che ti sostengono quando vai in scena. Tanti attori, anche poco famosi, ma da cui ho molto imparato. Mi piace ripetere questa espressione di Savinio: “Bisognerebbe fare un monumento all’attore ignoto”; da certe figure riesci a rubare con più avidità e libertà, perché sono meno popolari e quindi meno riconoscibili. DISEGNO LAVINIA BUSSOTTI

15 Quaderni della Pergola | Tavola tavola, chiodo chiodo. Prendo in prestito dallo spettacolo di Musella queste parole incise su una lapide del palcoscenico del San Ferdinando che Eduardo eresse in memoria del suo macchinista Peppino Mercurio, costruttore di quel palcoscenico distrutto dai bombardamenti nel ‘43. Sono parole che raccontano di una tenacia tutta eduardiana, o, se vogliamo, napoletana. Tra la scelta se soccombere o se tentare di rimettere in piedi, pezzo dopo pezzo, una speranza, Eduardo non ha dubbi. Egli e la galleria straordinaria di tutti i suoi personaggi, sono simboli di fiducia, di ottimismo; anche laddove sembra che tutto possa andare male Eduardo aspetta che “ha da passa’ a nuttata”. Nelle sue vene scorre quella certezza tipica dei partenopei di potersi affidare a tutto ciò che esiste, visibile o meno. È la città stessa che suggerisce la possibilità di dialogare con fantasmi e Santi (o santificati come Maradona, icona quantomai attuale che sicuramente ha condotto Napoli al trionfo con la vittoria del terzo scudetto). Il napoletano si fa simbolo di una condizione dell’essere in cui precarietà e senso del destino vengono bilanciati dall’ironia e dall’attaccamento, talora morboso, a credenze e superstizioni, uniche armi contro la cruda e dura verità della vita. Il personaggio umano, così ben descritto da Eduardo, è sempre maestro della propria vita, un eroe nella continua lotta con la fatalità. Possiamo affermare che Eduardo è, dunque, drammaturgo di speranza. Non sarà un caso allora che dal 2020 anno del Covid, nel momento più buio del Teatro, la Rai abbia scelto di produrre Natale in casa Cupiello con Sergio Castellitto e, nei mesi successivi I fratelli De Filippo con la regia di Sergio Rubini, Non ti pago, sempre con Castellitto, Filumena Marturano con Massimiliano Gallo e Vanessa Scalera. Eduardo è stato reso ancòra per un pubblico disorientato, avvicinandolo a quella fede che vede al di là della notte una possibile rinascita. di SERENA POLITI Eduardo: una speranza tutta napoletana FOTO FRANCESCA DELLA VALLE

16 | Quaderni della Pergola FOTO FILIPPO MANZINI

17 Quaderni della Pergola | Sonia Bergamasco LA MIA VOCE, IL MIO CORPO Un corpo per tutti. Biografia del mestiere di attrice: ha scritto questo libro per raccontare la sua storia? Il mestiere di attrice è sicuramente una professione, ma anche qualcosa di più. Perché dà voce alle storie di tutti. Fa spazio, dentro, ai ruoli incarnati ogni giorno dalle creature più diverse. Un corpo per tutti, una sorta di medium che assume su di sé emozioni e parole, trasmettendole agli altri. Un processo che si costruisce per gradi e che ha come punto di partenza e di arrivo il corpo. Volevo scrivere una sorta di manuale aperto a tutti, destinato anche a persone non addette ai lavori, che consentisse di raccontare e riuscire a fare comprendere cosa può significare essere un’attrice o un attore oggi. Il desiderio è di rispondere a delle domande, che in genere vengono poste quando si pensa alla recitazione, per quanto riguarda l’esperienza teatrale ma anche per il cinema e la televisione. Sto anche lavorando ad un film-documentario sul mestiere che svolgo, attraverso la figura leggendaria di Eleonora Duse, attrice “divina”. Uno dei capitoli iniziali del libro è dedicato alla scuola, un luogo capace di offrire dei modelli ai giovanissimi che cercano di darsi una forma e trovare una voce. Ma la scuola può anche essere sentita come una costrizione: si ricerca allora una libertà espressiva e nasce l’esigenza, ad un certo punto, di trovare la propria voce: può essere storta e stonata, una voce fuori dal coro, ma l’importante è che sia tua. In questa direzione nasce il desiderio di appoggiare quella che è la diversità, il non-iscritto in una regola. Il mestiere di attrice consente di svolgere un auto-riconoscimento, di esplorare qualcosa di misterioso È un libro in cui si insegna forse il rispetto per la singolarità… All’inizio il mio tentativo è stato quello di affrontare questi temi legati al mestiere, senza tirare me stessa “Ogni volta che cambia il pubblico, di recita in recita, si trasforma anche la rappresentazione: non è la storia che viene modificata, ma è l’intensità a salire, i diversi sapori che si amalgamano sul palcoscenico”

18 | Quaderni della Pergola troppo dentro alla narrazione, ma la richiesta che mi è stata fatta via via dai lettori che seguivano la costruzione e l’evoluzione del libro è stata sempre: “Dai, apriti di più, per fare capire quello che vuoi dire”. Ecco che allora questo libro è diventato qualcosa di più intimo, anche se sono una persona molto riservata. Attraverso gli incontri della mia esistenza, raccontando delle esperienze ‘vive’, ho voluto portare l’esperienza del mio lavoro all’ascolto da parte degli altri. Sono tutte esperienze vissute con molta intensità: è attraverso questo sentimento che si diventa attrici? Il punto che mi sta a cuore è che non esistono regole, anche se ciò può apparire come una contraddizione per la stesura di un manuale che tenti di dire quali sono le regole del gioco. Certamente le norme esistono, ma le costruisci tu, sul tuo corpo, sulla tua intima esperienza e il lavoro concreto sul campo. Non ci sono regole date e, anzi, tutto è continuamente da reinventare: se hai un dovere, come interprete e autore della tua storia, è quello di darti delle linee da seguire, anche se devono poi necessariamente mutare e muoversi, assecondando il tuo movimento personale. Quali sono i suoi incontri più significativi? Carmelo Bene, perché le sue opere appartengono pienamente al Novecento: il suo incontro mi ha fulminato. Per lui la musica aveva un valore essenziale e io, essendo una musicista, ho sentito da subito una connessione totale. Per andare in tempi più recenti, l’incontro con la comicità, che è arrivata per me anche in maniera dirompente: dalla partecipazione al film di Checco Zalone Quo vado? ai film di Riccardo Milani: era qualcosa che mancava nel mio percorso, mancava al racconto di un corpo, quello dell’attrice, che deve essere intero. Ho ricevuto queste occasioni come forme di arricchimento, non pensavo di essere in grado di interpretare certi personaggi, ironici fino quasi all’assurdo; invece, questi registi ‘mi hanno visto’ e hanno compresi certi aspetti di me che probabilmente erano nascosti nella mia interiorità. Penso che nella vita sia fondamentale riuscire ‘a vedersi’: era come se fino ad allora “Il mestiere di attrice è sicuramente una professione, ma anche qualcosa di più. Perché dà voce alle storie di tutti” Sonia Bergamasco, Un corpo per tutti. Biografia del mestiere di attrice (Einaudi 2023) DISEGNO MAURA LA PERLA

19 Quaderni della Pergola | avessi cercato dei contorni di me stessa che ancora non erano tratteggiati. Avevo bisogno di trovare un’immagine più concreta. Per me il comico è una benedizione: è l’assimilazione di uno sguardo più affilato sulle cose, che riesce a farti guardare bene il mondo. Siamo come dei falegnami: c’è anche un aspetto più artigiano del mestiere, si lavora su un materiale che con il tempo prende una forma, attraverso il corpo. Ho sempre pensato che essere attrici e attori significhi raccontare gli altri, descrivendo il farsi di tante esistenze, anche molto distanti da quello che siamo. Ma è, senz’ombra di dubbio, una sorta di mestiere simbolico, che ci riguarda profondamente e personalmente. Il libro racconta della costruzione di un carattere femminile. Si parla anche di fallimenti, citando Beckett: “Prova di nuovo, fallisci di nuovo, fallisci meglio”. Parlo dei momenti di crisi, alcune fasi più intime che creano dei picchi emotivi di esplosione, ma dopo si ha la possibilità di mettere insieme tutti i pezzi e ripartire. Occorrono molte energie, ma le crisi possono essere anche positive all’interno di un percorso artistico. Le ho vissute, e continuerò ancora a viverle… Essere attrici non può essere un sentiero lineare, piuttosto si tratta di un percorso a ostacoli. “La parola è per metà di colui che parla e per metà di colui che ascolta”: sono parole che vengono citate in Un corpo per tutti. Cos’è il pubblico per Lei? Lo spettacolo si fa insieme al pubblico: non esiste il lavoro in scena senza gli spettatori. Ogni volta che cambia il pubblico, di recita in recita, si trasforma anche la rappresentazione: non è la storia che viene modificata, ma è l’intensità a salire, i diversi sapori che si amalgamano sul palcoscenico. È un’alchimia quasi scientifica il rapporto che si instaura tra spettatore e attore, un’energia reciproca che gira e si intreccia. Lo spettacolo, se noi attori siamo soli, non esiste: tutto si accende e si muove con gli spettatori. Prima di ogni recita, quando senti il brusio del pubblico da dietro il sipario, avverti una voce unica, che è la somma di tante voci insieme. È come una musica e cerchi di capire come saranno questi individui davanti a te… È emozionante, capire il corpo del pubblico attraverso le voci che arrivano a te dietro le quinte. “È un’alchimia quasi scientifica il rapporto che si instaura tra spettatore e attore, un’energia reciproca che gira e si intreccia”

20 | Quaderni della Pergola FOTO E. MEREGHETTI

21 Quaderni della Pergola | Luca Micheletti L’ATTORE È UN LADRO Ha vestito, in tempi ravvicinati, sia i panni di Don Giovanni nell’omonima opera di Mozart che quelli di Alceste del Misantropo di Molière. Entrambi i personaggi non si presentano con una verità assoluta: non ci sono mai il bianco e il nero, ma si caratterizzano per delle sfumature. La figura di Don Giovanni è un mito della modernità e la versione che ne dà Mozart spicca su tutte, anche se si può dire che essa sia la somma di una serie di variazioni sul mito stesso. Don Giovanni è uno dei ruoli che ho cantato di più nell’opera e la possibilità di interpretarlo tante volte in regie differenti mi aiuta a scavalcare la complessità del personaggio e a comprenderlo meglio nelle sue molteplici sfaccettature. Per quel che riguarda Alceste, confermo una sorta di respiro leggendario legato a queste pagine scritte da Molière: per un attore è uno dei ruoli che ci si aspetta nella vita. Sono entrambi degli antieroi: Don Giovanni passa per essere un cattivo soggetto, un assassino e un libertino, ma con la nostra sensibilità di spettatori moderni – penso al suo inno alla libertà, per esempio – non possiamo fare a meno di stare anche dalla sua parte. Don Giovanni non è soltanto l’ateista fulminato della tradizione, un donnaiolo che ama le femmine, ma è anche un personaggio che diventa contemporaneo, fatto di chiaroscuri, che si esprime con il piacere dell’edonismo e il gusto dell’immanente. Invece, Alceste passa a volte per uno che ha ragione, mentre il suo eccesso di moralismo lo conduce al precipizio: lo schianto della sua filosofia di vita lo porta ad autodistruggersi come tutti i grandi personaggi di Molière che sono dei protagonisti, in qualche modo, malati. Sicuramente concordiamo con Alceste “Facevo la gavetta e ‘tritavo spettacoli’, li mettevo in fila uno dietro l’altro perché ho una storia che proviene da una Compagnia con una tradizione plurisecolare: sono erede di artisti girovaghi che sapevano fare di tutto”

22 | Quaderni della Pergola DISEGNO MAURA LA PERLA

23 Quaderni della Pergola | quando si scaglia contro la fatuità e l’ipocrisia, ma non possiamo accettare completamente la sua figura, anche se empatizziamo con le sue debolezze. Jacques Copeau ha scritto che la grandezza del Misantropo sta nell’essenzialità delle relazioni tra i vari personaggi: è la commedia dell’impossibilità di esprimersi liberamente quando si è preda delle passioni. Quindi non è stato un salto drammaturgico enorme passare da un personaggio all’altro? No, perché prima di tutto, per Don Giovanni, c’è un precedente molieriano molto diretto. Nello stesso libretto di Da Ponte se ne avvertono gli echi; più o meno si tratta della stessa materia e, in particolare, anche se è la prima volta che nella mia carriera incontro Alceste ho comunque una lunga schiera di personaggi molieriani alle spalle, sia come regista che come interprete. Il labirinto di passioni, emozioni e disastri personali che Molière esplora nelle sue opere sento di averlo già parzialmente mappato dentro di me. Lei è attore-baritono-regista: protagonista del Misantropo per la regia di Andrée Ruth Shammah, recentemente ha curato la regia de Le memorie di Ivan Karamazov con Umberto Orsini ed è stato diretto più volte da Riccardo Muti esibendosi come cantante lirico sui palcoscenici più famosi al mondo. Ma ‘leggenda’ dice che in precedenza fosse impegnato solo nella prosa e che non abbia mai cantato prima dei trent’anni… Prima avevo cantato come può farlo un attore e ho preso parte a tanti spettacoli musicali: uno su tutti, il dramma di Brecht La resistibile ascesa di Arturo Ui con la regia di Claudio Longhi. A 25 anni ho debuttato come cantante in quello spettacolo di prosa, in cui si prevedeva almeno un’ora di parte musicale; è vero, però, che non ho mai cantato l’opera prima dei trent’anni. Il mio caso è sempre stato diverso: io ho fatto fin da subito l’attore e quasi immediatamente anche il regista, prima dei vent’anni già firmavo diversi spettacoli. Facevo la gavetta e ‘tritavo spettacoli’, li mettevo in fila uno dietro l’altro perché ho una storia che proviene da una Compagnia un po’ speciale, con una tradizione plurisecolare: sono erede di artisti girovaghi che sapevano fare di tutto. La mia famiglia, i Micheletti-Zampieri, con la Compagnia I Guitti, fondata da mio padre, affonda le proprie radici nel teatro popolare di fine Ottocento. Le origini risalgono al teatro nomade del Carro dei Tespi, di sapore circense: un teatro quasi zingaresco, che andava di piazza in piazza. Anche se a me non è capitato più di viverlo nella sua forma originale, per quattro generazioni la mia famiglia non ha interrotto questo percorso. Diciamo che i mestieri del teatro li ho partecipati quasi tutti, e tutti di petto: sono un ‘cuciniere’ di drammaturgie e ho fatto anche il tecnico. Il teatro è artigianato, che ti obbliga a stare sempre con i piedi per terra e a non dimenticare quel bagaglio di usi e costumi: bisogna imparare le leggi di scena. “Fin da piccolissimo ho dovuto fare i conti con il fatto che il teatro, per me, non era come lo vedevano gli altri bambini: non era soltanto il paese dei balocchi, c’è sempre stata una grande disciplina”

24 | Quaderni della Pergola È importante per Lei tramandare il teatro alle nuove generazioni? Molto, infatti dopo anni di didattica ho dato avvio ad un progetto pluriennale: il Belfort Theatre Campus. Ogni estate tengo un seminario intensivo con giovani attori, in un’area geologica bellissima dell’alta Lombardia; sono due settimane di lavoro intenso e molto partecipato, in cui i ragazzi non pagano una quota ma vengono spesati di tutto: lo scambio tra noi è continuamente stimolante. Il teatro è parte integrante dell’individuo e della sua coscienza di essere umano, che si specchia nella modernità. Sono già passati una sessantina di giovani attori da lì, alcuni si sono affezionati talmente all’idea e così quest’anno nascerà la Belfort Theatre Company. Questo è un mio piccolo angolo di confronto, e non solo sul teatro, a cui non rinuncio. Grazie alla lirica è abituato a incontrare le platee di tutto il mondo: gli spettatori, dopo la forte esperienza della chiusura per il Covid, sono cambiati? Il periodo del Covid è stato doloroso, sia a livello umano che a livello professionale, per molti di noi. È un passaggio che ha creato una cicatrice nelle nostre coscienze. L’arte se ne farà carico nei prossimi anni, così come la vita sociale… Ma non credo che ciò abbia cambiato il modo di proporre uno spettacolo o di fruirlo: le tracce che ha lasciato sono più profonde e influenzeranno in maniera ipodermica il nostro modo di pensare e la nostra esistenza in futuro. Comunque, prosa e lirica hanno pubblici diversi: lo spettatore d’opera va a teatro aspettandosi di trovare esattamente ciò che cercava, e anzi, se non è così comincia a scollarsi dallo spettacolo; lo spettatore teatrale è forse l’esatto opposto: vuole farsi stupire, non sa quello che va a vedere o se ritrova la sua visione troppo uguale a ciò che si aspettava non si diverte. Nel mondo il pubblico cambia in base a come si differenziano gli usi e i costumi nei vari Paesi. Una cosa buffa, per esempio, che ho scoperto in Australia – e che succede in tutto il mondo anglosassone – è che ai protagonisti ‘cattivi’, quando sono particolarmente piaciuti, il pubblico grida: “BUU!”. Sei stato talmente convincente nel ruolo del cattivo che il pubblico confonde l’interprete con il personaggio, e ti gratifica urlando così… Addirittura a tutti gli artisti forestieri hanno distribuito una sorta di vademecum, perché non rimanessero male qualora capitasse una cosa del genere e si potessero, invece, divertire insieme agli spettatori. Lo spettacolo a diverse latitudini ha differenti modi di essere accolto, anche se rimane vero un fatto: la musica e il teatro sono dei ponti, legano le più diverse culture. Fin da piccolo, dunque, sapeva che sarebbe stato sempre su un palcoscenico? No, non è che ne avessi la coscienza, mi sembrava semplicemente un fatto normale: anche i miei quattro fratelli sono stati spinti sulla strada del palcoscenico, poi soltanto uno di loro è rimasto attore. Fin da piccolissimo ho dovuto fare i conti con il fatto che il teatro, per me, non era come lo vedevano gli altri bambini: non era soltanto il paese dei balocchi, c’è sempre stata una grande disciplina. Non mi è stato mai consentito di viverlo solo come un gioco: è un mestiere, che “Il teatro è parte integrante dell’individuo e della sua coscienza di essere umano, che si specchia nella modernità”

25 Quaderni della Pergola | ti dà delle soddisfazioni ma che richiede sacrifici. Anche per questa ragione, sento Molière molto vicino: anche lui ha conosciuto tutti i palcoscenici, dai più semplici a quelli più illustri. Il primo ricordo teatrale si confonde con le mie prime immagini di bambino, avrò avuto un anno e mezzo: mi ricordo di avere dormito dietro le quinte, proprio sui fondali della scenografia mentre le voci sul palco andavano… È così che, nel tempo, ho imparato subliminalmente le commedie o i drammi che venivano interpretati. Che cosa c’è nella sua valigia dell’attore e com’è cambiata nel corso del tempo? Porto sempre in tournée la mia valigetta dei trucchi: non serve tanto per truccarsi, ma per essere accompagnato dalle cose che rimangono dagli altri spettacoli. Ogni tanto ritrovo un bigliettino, un naso finto… Credo, forse, di avere smarrito in maniera concreta la possibilità di avere sempre con me dei frammenti delle varie esistenze che incontro, e delle quali mi maschero. Però, anche grazie alla diversificazione dei palcoscenici che frequento e alla moltitudine di quelli che ho visto finora, porto con me più autoconsapevolezza e molta umiltà, che mi è sempre stata insegnata. E considero anche, nel mio viaggio, gli incontri con i veri grandi artisti: è l’alimento più nutriente, perché l’artista è un ladro che deve sapere rubare dal lavoro dei Maestri, e questo si impara con il tempo. Nella mia valigia di attore posso dire che metaforicamente oggi c’è un grimaldello, degli strumenti adatti ad aprire certe serrature espressive. FOTO FILIPPO MANZINI

26 | Quaderni della Pergola Sono le ventuno e trenta. Il pubblico si affolla davanti al botteghino. Fra un quarto d'ora avrà inizio lo spettacolo. Ecco l’unico istante nel quale sento la responsabilità enorme del mio compito: questa folla è anonima, sconosciuta, esigente, e mai come in questo istante io sono fuori, ancora completamente fuori, del cerchio della finzione. Non mi sento ancora convinto di ciò che dovrò essere, tra qualche minuto sul palcoscenico. Mi sento confuso dalla folla; e mi sembra che debba anch'io avvicinarmi al botteghino e chiedere un posto per assistere allo spettacolo. Fino a che la luce della ribalta non mi acceca con le sue piccole stelle luminose e il buio della sala non spalanca il suo baratro infinito, io non prendo, né so, né posso prendere, il mio posto nella finzione. I minuti inesorabili mi inseguono. E nella loro corsa mi prendono, mi travolgono, mi spingono verso la porticina del palcoscenico, che si richiude, sorda, alle mie spalle. La barriera è chiusa. Due tocchi al trucco. Il campanello squilla: la prima e la seconda volta. La tela si leva. Ecco le piccole stelle. Ecco il baratro. Ecco l'attore. Eduardo De Filippo, Sik-Sik, l’artefice magico

27 Quaderni della Pergola | Cinque anni sono trascorsi dall’avvio del parternariato tra il Teatro della Toscana e il Théâtre de la Ville di Parigi, cinque anni segnati dalla continua condivisione della missione del teatro nel tempo presente e futuro. Tutto è partito dai valori di fondo contenuti nella Carta 18-XXI letta a Firenze nell’ottobre 2019. Giovani, Europa, Salute, Ambiente, Educazione, Formazione sono ed erano gli assi portanti della carta. Poi la pandemia, e tutti hanno iniziato a immaginare il monde d’après, il mondo di dopo. Man mano, si è fatta strada la certezza che il monde d’après per esistere realmente avrebbe dovuto essere caratterizzato dagli stessi valori della Carta 18-XXI. Che una nuova idea di una Europa della Cultura sarebbe stata centrale; che congiungere il teatro ad altre discipline, come la scienza, la medicina o l’attenzione all’ambiente, sarebbe stato fondamentale per iniziare il cammino verso una dimensione futura. È in questa ottica che nasce il progetto L’Attrice e l’Attore europei, la nuova sfida comune ispirata ai valori fondanti e ineludibili di questo lavoro fortemente condiviso. Attraverso la ricerca di nuove forme pedagogiche, e con la tensione di rinnovamento che ha ispirato teorici del teatro come Jacques Copeau, nasce l’impegno di formare una figura di interprete capace di superare tanto i confini nazionali quanto le barriere linguistiche. Un “attore aumentato”, un attore engagé, che impegni e si impegni, in campo artistico, sociale, anche su questioni sanitarie e scientifiche; un attore in grado di far parte di troupe di nazionalità diversa. La figura dell’attore, così, si trasforma in una sorta di “filo rosso” che guida le azioni comuni, ed è elemento di scambio tra culture e lingue diverse: su questo “filo rosso” si sviluppa anche la visione di un diverso rapporto di cooperazione tra Africa ed Europa, mediante l’individuazione di azioni artistiche concrete. Centro Internazionale di Cultura Teatrale DISEGNO LAVINIA BUSSOTTI

28 | Quaderni della Pergola EMMANUEL DEMARCY-MOTA Il potere dell’immaginazione ATTRICE E ATTORE EUROPEI “Sperimentare la condivisione permette di comprendere qualcosa di te stesso” FOTO FILIPPO MANZINI

29 Quaderni della Pergola | “La questione europea è evidentemente una priorità: siamo in Europa e cerchiamo di avere cura di quello che è vicino a noi, ma abbiamo anche l’obbligo di immaginare e pensare quello che è lontano da noi e che non vediamo. Questi due aspetti sono fondamentali, il vicino e il lontano, il visibile e l’invisibile. Noi - il Théâtre de la Ville di Parigi e il Teatro della Toscana - lavoriamo e lavoreremo sempre su entrambi i fronti, con una continua condivisione della missione del teatro nel tempo presente e futuro. Tutto è partito dai valori di fondo contenuti nella Carta 18-XXI, letta a Firenze nell’ottobre 2019: Giovani, Europa, Salute, Ambiente, Educazione, Formazione erano e sono gli assi portanti della Carta. Questo testo ci invita a farci guidare dal potere dell’immaginazione. Consideriamo che l’immaginazione è la vera realtà: non esiste una realtà indipendente dalla nostra capacità di immaginare. Il mondo è costruito attraverso un insieme di immaginari individuali, ma è il loro insieme che crea il progetto di collettività. Ognuno ha la propria cultura, ognuno ha la propria identità, ognuno ha il proprio passato, ognuno cerca il proprio futuro: soltanto se ci uniamo, però, riusciamo a realizzare uno spazio comune, in cui l’Europa e l’Africa diventano un unico continente. Oggi non possiamo pensare a un mondo ripiegato su se stesso e sulle singole identità. Abbiamo bisogno di questa relazione tra le diverse alterità, continuando a interrogarci, proprio per questa ragione, sul concetto di identità. La capacità di ricevere dall’altro – e di imparare, anche, insieme all’altro – è la dimostrazione di come possiamo riuscire ad andare oltre un sistema verticale di potere e organizzazione. Il nostro è un cammino comune e abbiamo un tempo per farlo, un percorso concreto da definire insieme; non c’è un obiettivo finale, ma ne esistono diversi, in cui prioritaria rimane una domanda: oggi che cosa definisce il Teatro? E come possiamo lavorarci negli anni futuri? A Firenze e a Parigi, così come in molte altre capitali europee, esiste una tradizione di formazione per il mestiere di attore. Invece, non ci sono scuole di attori, per esempio, in Africa: la recitazione non si fonda su una tradizione secolare. Africani ed europei non contano il tempo nello stesso modo: quando chiediamo a qualcuno quanti anni ha in Africa, spesso la persona in questione non lo sa. Siamo noi occidentali che chiediamo l’età a chi ci sta davanti: vogliamo sapere se rinnovare o sostituire, creando una dinamica politica. In questo nostro progetto comune, l’intento è di riuscire a trovare uno spazio di dialogo che inviti a cercare nuove strade: primo esito sperimentale del progetto L’Attrice e l’Attore europei è stato l’inserimento nel cast di Ionesco Suite di attrici e attori del Teatro della Toscana scelti tra i diplomati della Scuola Costa e de L’Oltrarno, uno per replica, al termine di due momenti di lavoro realizzati a Firenze da attrici e attori del Théâtre de la Ville di Parigi. Ionesco Suite è uno spettacolo identitario del Théâtre de la Ville, su cui gli attori in Francia lavorano da quasi vent’anni, continuando a scavare nei testi di questo autore per capirne le angosce più profonde. Lo scam- “Il nostro obiettivo primario diventa: lavorare tutti insieme sull’idea di un Teatro-Mondo”

30 | Quaderni della Pergola bio degli attori francesi con le giovani attrici e i giovani attori italiani è un arricchimento, così come l’incontro con gli artisti africani: tutti prendono qualcosa dall’altro che appartiene a un determinato luogo, ma allo stesso tempo lasciano qualcosa di loro stessi in ogni luogo. Si esce trasformati da incontri di questo tipo: sperimentare la condivisione permette di comprendere qualcosa di te stesso. Abbiamo bisogno degli spettatori: quando recitiamo guardiamo il pubblico, è l’oggetto della nostra sperimentazione. Ecco perché rappresentiamo anche gli stessi spettacoli in città diverse del mondo: necessitiamo della comunicazione con lo spettatore e ci rendiamo conto che spesso non può capire immediatamente ciò che avviene in scena, quindi continuiamo a ripetere e a cercare nuove relazioni. Anche per questa ragione ci interroghiamo ancora su quale sia il posto in cui debbano collocarsi l’Attrice e l’Attore europei. Colei o colui che parla lingue diverse all’interno della comunità europea: il desiderio è di scoprire nuovi linguaggi, lavorando sui rapporti degli attori europei che integrano la relazione con gli attori africani. La lingua costruisce il nostro inconscio. Bisogna lavorare promuovendo attori, poeti, scrittori per rinnovare e realizzare un nuovo atto creativo che coinvolga contemporaneamente gli autori del passato, che fanno parte della nostra memoria, ma anche rivolgendosi al futuro per combattere una crisi, un forte indebolimento dell’arte e della cultura che sta attraversano tutti i Paesi. Il nostro continente soffre della mancanza di curiosità, e di apertura verso l’altro – il poeta di un altrove o il ricercatore dell’arte che si trova in un luogo diverso – e la risposta a DISEGNO MAURA LA PERLA

31 Quaderni della Pergola | ciò appartiene alla nostra responsabilità, fa parte del lavoro che dobbiamo svolgere: non ignorare quello che c’era prima di noi, l’esperienza del passato, ma rinnovare qui e ora il nostro mestiere per andare verso nuove possibilità e anche verso una nuova forma di condivisione. Come possiamo avvicinare la poesia alla popolazione? Come portare la poesia in uno spazio pubblico, nelle scuole, negli ospedali, nei centri dove si trovano persone che abitualmente non vanno a teatro? Approfondiamo costantemente la dimensione della tradizione e della modernità, ma al centro si pone anche la questione della transizione digitale: ci chiediamo, infatti, come si può lavorare insieme stando lontani? In che modo possiamo, essendo distanti e a prescindere dalla cultura, dalla lingua e dalla nazione di appartenenza, restare collegati? Il nostro obiettivo primario diventa: lavorare tutti insieme sull’idea di un Teatro-Mondo. Quando parliamo di Attrice ed Attore Europei, in realtà ci stiamo interrogando sull’idea stessa di Identità versus Alterità, sentendo la necessità di interagire anche con strutture del continente africano. La formazione dell’Attrice e dell’Attore europei passa attraverso una serie di conoscenze contemporanee di tipo sociale, economico e scientifico, che corrispondono alle sfide della nostra epoca. Qual è il ruolo, e anche la funzione, del teatro nella storia, nella nostra memoria collettiva e nella trasmissione del sapere, anche nella costruzione del futuro: su questi temi dobbiamo continuare ad approfondire ed indagare. Cerchiamo, insieme, di seguire un cammino, di conservare la speranza, di inventare e sperimentare, avere curiosità e condividere”. Giovani attrici e attori con Emmanuel Demarcy-Mota, Direttore del Théâtre de la Ville di Parigi, Pier Paolo Pacini del Teatro della Toscana e Vincent Mambachaka Consigliere per l’Africa del Théâtre de la Ville. FOTO FILIPPO MANZINI

32 | Quaderni della Pergola VINCENT MAMBACHAKA Alziamoci in volo insieme ATTRICE E ATTORE EUROPEI Il mio discorso inizia con un termine in Swahili, una lingua parlata in vari stati dell’Africa dell’est fino all’Africa del sud: daraja, che significa “ponte, passerella”. Il padre di Emmanuel Demarcy-Mota, Direttore del Théâtre de la Ville di Parigi, è stato un mio professore alla Sorbona e ha lanciato un ponte, una passerella, appunto, tra lui, me e suo figlio. È un collegamento arrivato fino all’Africa centrale (e che adesso coinvolge anche l’Italia con il Teatro della Toscana), dove è stato creato un luogo di cultura chiamato Linga Tere, al cui interno si formano i giovani perché trasmettano il messaggio del teatro. La parola Teatro nella mia lingua non esiste, ma ci concentriamo sull’iniziazione dei giovani che comunicano tra loro, guardando all’ambiente che li circonda. È il messaggio che vogliono esprimere a creare il modo giusto, per arrivare a conoscere loro stessi e gli altri. Attraverso Linga Tere è possibile richiamare, per noi, la parola Teatro: la mia identità, la mia cultura e la mia anima risiedono in una dimensione individuale, ma è ciò che di me voglio comunicare agli altri a costruire un passaggio tra esseri umani. Ed è proprio questo ponte con l’Africa che il Teatro della Pergola a Firenze e il Théâtre de la Ville a Parigi vogliono creare, passando attraFOTO FILIPPO MANZINI

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