Quaderni della Pergola - Dove eravamo rimasti - Fondazione Teatro della Toscana

70 | Quaderni della Pergola continuavo a dire: “Papà, perdono, perdono, perdono…” Ecco che si alza il padre e dice: “Signori, la commedia finisce qui!”. Quella sera provai un tale stupore, un sentimento inebriante… Mi ricordo di quel preciso istante in cui ho pensato: “Caro Sipario, tu resterai alzato per me per molto tempo.” Recitare, o meglio interpretare, non è cercare di raccontare quello che il personaggio sta vivendo: è vivere, profondamente, quello che il tuo ruolo attraversa sulla scena. La prima grande emozione che ho vissuto come interprete è stata ascoltare Ruggero Ruggeri: ho sentito la sua voce alla radio, dal timbro particolare e inconfondibile, che pronunciava i versi di Riccardo III di Shakespeare; l’ho poi ritrovato al Teatro Quirino a Roma: ho visto che interpretava Tutto per Bene di Pirandello e sono subito andato a teatro, lo volevo ammirare in scena. Che delusione! Il teatro era semivuoto… Sul palcoscenico entrò Ruggeri: quest’uomo piccolino, basso, sembrava quasi insignificante. In un punto dello spettacolo si avvicinò all’attrice che aveva il ruolo di sua figlia e le disse: “Ti devo parlare”. Ma la figlia doveva partire e non gli prestò attenzione. Restò solo il genero che chiese: “Beh, cosa voleva dire?”. Ruggeri lo guardò. Una pausa infinita, poi disse sottovoce: “Niente, ti ho salutato.” In sala si sentì dal pubblico un singhiozzo, il mio: mi ero commosso. In quel “Niente, ti ho salutato” c’era tutto un mondo pieno di sentimento: si esprimeva un grido di solitudine e di disperazione. È lì che ho capito che cosa significa l’interpretazione: non importa gridare, l’importante è arrivare a fare vivere dentro di sé un sentimento. Un’altra emozione della mia vita riguarda un episodio legato a Memo Benassi. Eravamo su una nave. Durante questo viaggio ci fu una festa con un’orchestrina e balletti. Man mano che la gente se ne andava e l’orchestra metteva via gli strumenti, rimanemmo in una scena quasi felliniana: diversi tavoli con tante bottiglie sopra, piatti sporchi, il pavimento pieno di coriandoli, cotillon, cose varie… Mi ricordo che avevo un vestito grigio chiaro, dato che non avevo soldi per comprare uno smoking. Eravamo rimasti soltanto Benassi e io, con lui seduto in silenzio e io non sapevo cosa dire. Ma lui si rivolse a me: “Ti faccio sentire come recitava la Duse”. Spense tutte le luci dello spogliatoio, lasciando la porta di una stanza semichiusa: era come un taglio di luce che attraversava la scena. Lui stava creando un’atmosfera teatrale: tutto buio, come avviene in teatro quando comincia lo spettacolo. “Ho sbagliato prima, ti ho detto che ti avrei fatto sentire come recitava la Duse, ma ti farò sentire come interpretava la Duse”: iniziò a piangere, gettandosi per terra ed entrando immediatamente nel dramma. Per quasi un’ora Memo Benassi diventò Eleonora Duse. Lui era Eleonora Duse. Arrivò l’alba e la luce del sole cominciò a illuminare lo spazio, distruggendo in qualche modo la poesia, la magia di trovarsi come in un notturno teatrale. Benassi terminò di interpretare La donna del mare, si alzò, si asciugò gli occhi per la commozione e non mi disse nulla. Io, allora ventitreenne, lo abbracciai. Quella fu una serata per me indimenticabile: avevamo condiviso la poesia e la bellezza del “Considero il teatro come una ginnastica dei sentimenti, per costruire e inventarmi, ancora una volta in più, un personaggio nuovo” Il disegno di Eleonora Duse è di Lavinia Bussotti

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