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Facendo rumore. Intervista a Stefano Massini

07 novembre 2024

di Angela Consagra

Il suo lavoro per questo spettacolo parte da lontano, analizzando a lungo il testo Mein Kampf, l’autobiografia di Hitler. Dopo questo intenso studio, che cosa ha compreso del personaggio-Hitler?

Per molto tempo siamo arrivati a usare una tattica implicita e anche un po’ inconsapevole, nel senso che abbiamo reso questo personaggio, appunto, un personaggio… È diverso pensare di trovarsi al cospetto di un personaggio rispetto a una persona: quando ammetti di avere davanti un essere umano il peso è differente, perché sai che l’essere umano è come te. Rendere quell’essere umano un personaggio, tra l’altro una figura profondamente demoniaca e mefistofelica, ci aiuta a definirlo come un’entità esterna che ci è capitata nella storia europea degli anni Venti e Trenta. Come se quasi magicamente, Hitler fosse riuscito a canalizzare l’attenzione dei cittadini di uno Stato europeo tra i più colti: la Germania è il Paese di Wagner e di Goethe, una società che ha dato il massimo in termini filosofici, artistici, letterari e poetici. Incredibilmente, milioni e milioni di tedeschi si sono fatti ipnotizzare da un’entità antiumana, una sorta di ufo che, soprattutto, sembra non avere mai avuto niente a che fare con noi. Invece, approfondendo tutto il materiale che è alla base di questo spettacolo, si scopre l’aspetto più urtante: al di là della psicosi, della frustrazione e della psicopatologia di Hitler – il testo è stato studiato da molti analisti sotto questo punto di vista – si tratta comunque di un uomo che ha agito nella Storia.  Da essere umano ha parlato ad altri esseri umani, attingendo a quella parte oscura che tutti abbiamo dentro di noi: il lato rimosso, più rabbioso e impaurito, che chiede supremazia abbeverandosi di aggressività per risolvere i nostri conflitti. Questo è l’aspetto che mi ha colpito: la sua umanità. Ecco perché Mein Kampf diventa uno spettacolo altamente divisivo: anzi, mi auguro che crei proprio repulsione, un senso di disagio capace di far pensare gli spettatori e spingerli a parlare tra di loro di cosa realmente è accaduto. Un meccanismo essenziale del teatro pubblico – insisto sulla parola pubblico – deve mettere in moto delle sinapsi, dei ragionamenti e delle emozioni, anche se provocano sdegno. Nello spettacolo io cerco di ricreare quella situazione particolare, per cui allora le parole fecero breccia nella testa di così tante persone. Se anche un solo spettatore arriva a ipotizzare che io abbia ragione, che sul palcoscenico si stia parlando anche di lui, e pensa: “Anch’io ci potevo cadere!”, per me si sta verificando una verità fondamentale: non è accaduto qualcosa di storicamente circoscritto agli inizi del Novecento, ma è qualcosa di ripetibile, al punto tale che ancora questo argomento ci fa effetto.

“Le parole sono realtà, le parole sono conseguenze: all’apparenza è solo inchiostro, però si tirano dietro fatti veri”

Stefano Massini

 

 

Ha definito questo progetto come “un esperimento politico teatrale…“

Quando si parla di politica si pensa subito che si faccia propaganda in teatro, ma non è questo il punto. Non c’è un segno politico in questo spettacolo, non si vedono neanche baffetti o capigliature hitleriane, divise o filmati d’epoca: soltanto le parole su un palcoscenico. Non abbiamo mai voluto leggere prima quel testo perché abbiamo sempre pensato che la sua conoscenza potesse già implicare in sé una forma di riabilitazione. Ancora, a distanza di un secolo, è un libro che fa paura, che occorre rimuovere e dal quale è bene ritrarsi. Ma è solo con la conoscenza che si può evitare la ripetizione della catastrofe. Il fatto che davanti a questa vicenda scatti una sorta di veto è evidentemente frutto della nostra debolezza: per citare Freud, tutto quello che fa paura noi tendiamo a reprimerlo e non volerlo vedere, perché in questo modo ci sembra di avere vinto ogni timore. Abbiamo utilizzato i due meccanismi descritti da Freud come reazione davanti a un trauma: l’evitamento (con il divieto della stampa e della vendita di Mein Kampf in libreria fino al 2016) e l’ironia, perché il sarcasmo e la risata ci fanno apparire le cose come digerite e archiviabili. Da Charlie Chaplin con Il grande dittatore, innumerevoli sono state le storie in cui il personaggio di Hitler viene deriso, sottraendoci così alla domanda: perché milioni di cittadini hanno abboccato alle sue parole? Il testo di Mein Kampf non è un trattato né un manifesto politico, ma un’autobiografia, scritta come un romanzo di iniziazione: uno degli strumenti più antichi della storia della letteratura, basti pensare a Pinocchio. Collodi ci racconta di come Pinocchio diventi un bambino vero, nel Mein Kampf Adolf Hitler racconta in che modo lui diventò un politico vero. E utilizza la metafora dell’underdog, tra l’altro oggi iper-replicata: la storia di quello reietto, che doveva fare l’impiegato ma voleva essere un pittore, gli altri guadagnavano e lui no, la pecora nera che nessuno ascoltava o capiva, nato dalla parte sbagliata del confine (dal lato austriaco invece che tedesco). La frustrazione del singolo che trova sfogo nel presentarsi come il re dei frustrati, colui che può rendere giustizia a tutti.

Il linguaggio del teatro può essere uno dei mezzi più importanti per arrivare a vedere la nostra parte più oscura? 

Deve esserlo, nel modo più assoluto. C’è un episodio nella storia del teatro: si racconta che quando Gogol debuttò con L’ispettore generale lo Zar si complimentò, ma disse che una cosa non gli era piaciuta perché mancava un personaggio positivo, tutti i caratteri erano profittatori e ipocriti. La risposta di Gogol fu geniale: “C’è una ragione. Se in mezzo a cinquanta corrotti avessi messo una figura positiva, tutti avrebbero detto: Io sono quella”. Allo stesso modo, in un certo senso, anche in Mein Kampf ci si aspetta un commento dal palco in cui venga espresso il concetto: “Ma vi rendete conto di cosa lui sta dicendo?”.  Al contrario, ci sono solo le parole di Hitler e tu, spettatore, non puoi identificarti immediatamente con una parte antihitleriana, salvifica e razionale. Sulla scena c’è una pagina bianca, dove io – vestito di nero come un pennino d’inchiostro – dico parole che diventano scritte. Le parole sono realtà, le parole sono conseguenze: all’apparenza è solo inchiostro, però si tirano dietro fatti veri che con la forza della gravità – oggetti scenici fisici pesanti – piombano sul palcoscenico facendo rumore. 

 

“Un meccanismo essenziale del teatro pubblico – insisto sulla parola pubblico – deve mettere in moto delle sinapsi, dei ragionamenti e delle emozioni, anche se provocano sdegno”

Stefano Massini

Foto Filippo Manzini