Non siamo soli. Intervista a Tindaro Granata
14 aprile 2025
di Angela Consagra
Vorrei una voce, titolo dello spettacolo che fa riferimento a una canzone di Mina, in che modo si collega con il lavoro svolto con le detenute di alta sicurezza della Casa Circondariale di Messina?
Il lavoro nasce grazie al progetto Il Teatro per Sognare, ideato e organizzato da Daniela Ursino, direttrice artistica del teatro nel penitenziario. Abbiamo iniziato prima del periodo del Covid; poi, nella fase della chiusura collettiva l’isolamento è stato ulteriore: per le detenute non era possibile neanche fare i colloqui con i propri cari. Erano disperate, così ci siamo inventati degli incontri online con delle personalità del teatro: questo progetto ha preso il nome di Vorrei una voce. Quando, in seguito, ho scritto lo spettacolo sono state le ragazze stesse a dirmi: “Perché non lo chiami Vorrei una voce?” È un titolo che coincide con tutto il senso dello spettacolo. Il desiderio è di dare voce a queste donne che si trovano rinchiuse in carcere e che stando lì dentro non potrebbero parlare, non potrebbero dire quelle parole che ho scritto: nello spettacolo raccontano la loro anima, i loro segreti più reconditi.
In questo monologo si uniscono due diversi registri: ci sono le paillettes e la musica di Mina, ma anche la profondità delle storie delle detenute che vengono raccontate. Che femminilità è quella che si descrive sulla scena?
Un aspetto che mi ha colpito molto è che queste donne, ogni volta che andavo a incontrarle, mi dicevano: “Scusa per come ci vedi”, cioè si scusavano di come erano fisicamente. Con l’inizio della detenzione si erano lasciate andare: mi dicevano cose del tipo “io ero magra prima di entrare in carcere, prima mi curavo e avevo i capelli sempre in ordine, mentre ora invece appaio disordinata”. Provavano disagio per il loro corpo, così ho pensato di intraprendere un progetto che regalasse la possibilità di stare bene con il proprio corpo. Ecco perché ho scelto Mina: per lavorare su una femminilità e una sensualità che corrispondessero anche all’aspetto fisico. Abbiamo richiesto al Ministero di fare lo spettacolo in carcere ed era implicito che noi avessimo un parrucchiere e dei truccatori: per le donne rinchiuse è stata una gioia, all’interno di quelle mura vestono sempre con una tuta nera e le scarpe da ginnastica. Non scorderò mai una delle ragazze che ha indossato i tacchi (che in carcere sono vietati) e si è messa a piangere. Queste donne, anche quando sono ricoperte di paillettes e trucchi pesanti, mantengono profondità e complessità.
In Vorrei una voce il momento del trucco e della vestizione assume un valore fondamentale.
Sì, perché in scena mettermi dei costumi significa mettermi nei panni di queste donne. È un processo simbolico, per provare a comunicare con gli spettatori attraverso il gioco del teatro. Trucco e abiti di scena mi aiutano a mostrare quella parte dell’animo femminile che mi è stato concesso di poter raccontare.
“In scena mettermi dei costumi significa mettermi nei panni di queste donne. È un processo simbolico, per provare a comunicare con gli spettatori attraverso il gioco del teatro”
Quando ho scelto di come apparire al pubblico, c’è stato un lungo ragionamento: ho deciso per un look mixato alla Mina che, in un album degli anni Novanta chiamato Aliena, si è fatta ritrarre calva. Ho utilizzato questa immagine di lei senza capelli, per dare una connotazione più androgina, e il classico trucco degli anni Settanta con le ciglia e sopracciglia molto evidenti. La fase della preparazione è fondamentale: è il momento, per me, della concentrazione.
Parlando di questa esperienza ha usato delle parole importanti: sogno e libertà. Dopo l’incontro con le detenute è cambiato il suo modo di sognare e di pensarsi libero?
Assolutamente sì, ho imparato da loro. Prima di tutto, il concetto di libertà è per queste donne qualcosa di molto materico. Ogni istante dell’esistenza è scandito, infatti, dalla visione delle sbarre: in cella, quando escono per le udienze sui furgoni, in tribunale. Le porte e le finestre hanno sempre le sbarre.
E libertà è arrivare a non vedere più le sbarre. È strano perché, al contrario, per noi l’idea di libertà è più astratta e romantica. Sicuramente ho capito che la libertà esiste solo quando la perdi: lottiamo quando la libertà non ce l’abbiamo più, si tende a darla per scontata. Per quanto riguarda il concetto di sogno, sono convinto che non sognare significa morire dentro. Se non sogniamo una parte di noi muore. Penso che l’infelicità degli esseri umani dipenda dal fatto che non crediamo più in niente: né in un moto spirituale, né, per esempio, nella Patria o nella politica. Alcuni degli ideali del passato sono diventati anacronistici. Siamo totalmente disillusi e non crediamo più nel fatto che si possa stare bene o essere felici. Soprattutto il sogno è relegato sempre al passato, a quando si era più giovani, e ciò vale sia per una persona di 70 o di 40 o di 20 anni: c’era un’epoca della vita in cui ci si sentiva felici. Nessuno ti dice mai che sta sognando in questo preciso momento… Avere un sogno non vuol dire diventare ricco e famoso: il sogno è quella roba che ti permette di essere felice. Abbiamo parlato tanto con le donne rinchiuse e mi ripetevano che non riuscivano a sognare o, anche, a ricordare: le parole delle canzoni se le erano dimenticate, perché dentro difficilmente si canta e non si può ascoltare la musica. Sconvolgente è che la musica sia sinonimo di libertà perché capace di passare attraverso le sbarre: durante le prove, la musica ad alto volume andava ovunque, la ascoltavano sia la direttrice del carcere che le guardie carcerarie e chi non può uscire. Io ho cominciato a fare teatro per esprimere un altro mondo, quelle parti di me nascoste e che avevo voglia di dire con la scrittura. Il mondo che a me piacerebbe raccontare è anche quello che percepisco nella vita delle altre persone: i miei spettacoli non partono solo da fatti autobiografici e, anzi, ciò che cerco di capire è se, partendo da quelle vicende, si arrivi a descrivere qualcosa che è più grande di me. Se qualcuno si può rispecchiare nel racconto che faccio, allora per me ha senso dirlo. Il teatro è un modo per affermare una semplice evidenza: non siamo soli. Ed è fondamentale, perché una delle grandi malattie di questo tempo moderno è la solitudine.
Mina è sempre stata una sua cantante di riferimento?
Da quando ho coscienza del mio stato di essere umano, direi di sì!
E il pubblico, che cos’è per Lei? Una sua definizione.
Sono delle amiche e degli amici che mi vengono a trovare, persone che entrano nella mia casa e devo, quindi, fare trovare la casa pulita, una cena meravigliosa… Quella sera io devo fare per loro le cose più belle.
“Avere un sogno non vuol dire diventare ricco e famoso: il sogno è quella roba che ti permette di essere felice”