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Senza finzioni. Intervista a Valentina Picello

14 gennaio 2025

di Angela Consagra

Anna, la protagonista di questo spettacolo, che donna è?

La proposta per la costruzione di questo personaggio femminile è nata da Gaia Silvestrini di Carnezzeria, che aveva prodotto anche lo spettacolo Edificio 3. Storia di un intento assurdo: la mia interpretazione era allora affidata, come adesso in Anna Cappelli, al regista drammaturgo argentino Claudio Tolcachir. Seguendo la richiesta di Gaia Silvestrini per la realizzazione di un nuovo spettacolo, Claudio aveva espresso la volontà di lavorare sempre insieme a me ma su un monologo scritto da un altro autore. Lui non conosceva Annibale Ruccello, ma desiderava mettere in scena la storia di una donna caratterizzata da cambi repentini di umore e di volontà. Anna - il mio personaggio - è cresciuta senza un’identità precisa, in una famiglia dove non è mai stata tanto considerata, perché il padre si è sempre concentrato soprattutto sull’altra sorella più piccola e la madre non viene neanche citata durante lo spettacolo. Nel testo ci si sofferma molto su un fatto: questa ragazza non ha mai avuto una stanza sua, non è riuscita a vivere con dei tempi che appartenessero solo a lei. Da questo punto di vista, a me viene sempre in mente un romanzo di Virginia Woolf che mi è molto caro: Una stanza tutta per sé. Forse anche perché, per via del lavoro che faccio, avverto molto il bisogno di trovare qualcosa che sia solo mio: uno spazio unico, in cui sentirmi libera di piangere, dormire e mangiare quando lo voglio io, senza seguire i dettami delle condizioni familiari o le regole che ci autoimponiamo. Per comprendere meglio il mio personaggio, ricordo che, nella fase di prove, Claudio ripeteva: “Abbiamo capito che in scena Valentina sa fare ridere e piangere, ma avrebbe bisogno anche di un lavoro dove, sempre in maniera molto umana e universale, riesca a svelare al pubblico la complessità dell’essere umano”: ognuno di noi può essere sia buono che cattivo, mai una cosa sola. Anna Cappelli non è una donna che premedita niente: diversamente da altre interpretazioni precedenti del testo, questa nostra figura femminile non uccide per vendetta. Per amore aveva accettato di vivere con sottomissione insieme al convivente, ma Claudio è arrivato addirittura a pensare che questa donna uccida involontariamente l’uomo e non come azione estrema per rivendicare la propria libertà. Lei dichiara di avere passato 48 ore con questo corpo, senza sapere bene cosa fare: questo è un elemento ulteriore, da cui si comprende che non c’è stata alcuna premeditazione. Claudio Tolcachir ha immaginato la rappresentazione in un luogo astratto, perché tutto potrebbe avvenire nella mente di Anna: siamo in una veglia obbligata, davanti a un corpo – ripeto – di cui non si sa cosa fare. Nonostante la visione del testo di Ruccello, che potremmo definire psiconalitica o freudiana, comunque io sono una donna ironica e quando il racconto sta per cadere nell’abisso l’indicazione registica è di fare come nella vita vera: si stacca il dramma e alleggeriamo con una battuta. 

“Il teatro è fatto con il corpo. Anna Cappelli è una donna che si esprime non solo con quello che dice. Questo è il nostro modo di vedere il personaggio, ma anche, più in generale, l’essenza del teatro”

 

Ogni tanto è scritta nel testo, ogni tanto la aggiungo io, ma non forzando niente: il tono generale finale ho capito che ha a che fare molto con l’Argentina. Da ragazza ho iniziato a fare teatro a domicilio, a cappello, e ho continuato anche dopo che mi ero diplomata al Piccolo: anche il regista Tolcachir, a Buenos Aires fa teatro in casa. La sua Compagnia si chiama Timbre 4: in spagnolo timbre è il citofono. È come se entrambi, nel lavoro condiviso, non avessimo mai dimenticato le nostre origini popolari: l’obiettivo è di stare, proprio fisicamente, molto vicini al pubblico.

 

E a proposito del Pubblico, se dovesse darne una definizione: che cosa direbbe?

È la prima volta, per me, che ne ho tanta paura, come quanto ne ho bisogno. Si tratta del mio primo monologo. Ti avrei risposto in una maniera diversa, prima di questo spettacolo. 

Luigi Angelucci

Adesso quello che mi piace degli spettatori è lo stupore. Quando in scena sento che arriva, ho la certezza che loro sono con me. Il pubblico vuole capire. Fondamentalmente la storia ti stupisce, nella misura in cui ti fa riflettere: ciascuno di noi non può dire come reagirebbe di fronte a certi dolori. Stai guardando la scena e pensi: io farei o non farei come lei? Io mi sarei ammazzata, io avrei ammazzato lui? Avrei avuto coraggio oppure no?

 

Il registro dell’intera messinscena è dunque surreale? Le parole del napoletano Annibale Ruccello ricordano il tono di una certa scrittura latino-americana?

In scena mi muovo in questa terra, dove effettivamente i pochi elementi di una casa stanno sprofondando. Anche lei stessa, Anna Cappelli, sta sprofondando. A me piace pensare che stia immergendosi dolcemente alla ricerca delle sue radici, che io identifico con la Madre Terra. Il rimando, soprattutto visivo, è alla Winnie di Giorni felici di Samuel Beckett. Claudio Tolcachir è argentino e io italiana: parliamo lingue diverse, ma quando mi dirige si fida e mi capisce anche se non comprende bene cosa io stia dicendo. Si affida al suono delle parole, che spesso provengono dal gergo popolare. Si accorge del tono sbagliato di una battuta, perché magari vede il mio corpo in scena in difesa o che si nasconde, dietro a un sussurro o a uno sguardo che si abbassa… Mi dice di essere più coraggiosa, di fare vedere la mia faccia in quella battuta: lui mi dirige così.

 

È la dimostrazione del teatro come linguaggio universale, al di là dei confini linguistici?

Il teatro è fatto con il corpo. In particolare, Anna Cappelli è una donna che in certi momenti parla di più con il corpo: si esprime non soltanto con quello che dice. Questo è il nostro modo di vedere il personaggio, ma anche, più in generale, l’essenza del teatro che non deve essere mai dimostrato o recitato meccanicamente: il corpo agisce in scena senza artifizi, con naturalezza.

 

“Per quanto riguarda il pubblico, è la prima volta che ne ho tanta paura, come quanto ne ho bisogno. È il mio primo monologo. Quello che mi piace degli spettatori è lo stupore”