Vai al contenuto principale

Un gioco di parole e musica. Intervista a Claudio Bisio

18 marzo 2024

di Angela Consagra

Partendo dal titolo dello spettacolo La mia vita raccontata male: perché “male”? In che modo si snoda in scena il filo della narrazione? 

Lo spettacolo deriva da un gioco di parole, dalla parodia di un fumetto che si chiama La mia vita disegnata male realizzato da Gipi, un nostro caro amico. Il titolo è un omaggio a questo suo lavoro. E per quanto riguarda l’utilizzo dell’aggettivo male darei due motivazioni, una forse più banale e una profonda: noi non descriviamo una storia in ordine cronologico, perché partiamo dall’infanzia e andiamo avanti fino all’età adulta, ma ritorniamo anche indietro agli anni del liceo. Si tratta di un racconto un po’ smandrappato e anarchico, non si presenta come un compitino perfetto. Invece, l’altra motivazione più intima è che la vita raccontata non è edulcorata: non ci sono soltanto i momenti belli, ma rimangono pure le amarezze, i lati negativi, il cosiddetto dark side of the moon. Da questo punto di vista, voglio ricordare alcune parole dello spettacolo, che spiegano bene ciò che sto dicendo: “e ho imparato che, come per i bastoncini dello shanghai – se tirassi via la cosa che meno mi piace della vita, se ne verrebbe via per sempre anche quella che mi piace di più.” 

 

 

“In quella frazione di secondo, che mi conduce verso il palcoscenico, io non sono più Claudio ma divento quel ruolo lì. È vero, nell’essenza sono sempre Claudio, ma in maniera diversa”

Claudio Bisio

Il filo del racconto è dunque sentimentale?

C’è di tutto in questo spettacolo, il testo proviene dalla scrittura di Francesco Piccolo. La drammaturgia l’abbiamo costruita io e il regista Giorgio Gallione, partendo proprio dai libri di Piccolo, con la sua supervisione. Sono dei racconti, dei capitoli di una vita, con tanti aneddoti. In una di queste storie, che è molto divertente, in scena dico: “Sono diventato comunista al settantottesimo minuto di una partita di calcio”. Si narra, infatti, della storica partita del ’74 tra Germania Est e Germania Ovest ai Mondiali di calcio: il lui/io in scena, ragazzino adolescente, guardando questa partita insieme al papà dà per scontato di tifare la Germania Ovest, perché è quella parte del Paese in cui allora ci si identificava di più. Istintivamente, però, il protagonista inizia a tifare quegli sfigati della Germania Est, che nessuno conosce. La partita finisce 1-0 per la Germania Est e quel ragazzino adolescente ha un moto istintivo di esultazione, mentre suo padre lo guarda male. È lì che si capisce che qualcosa è successo, che dentro il narratore il sentimento è cambiato. Ogni spettatore può trovare nel racconto sulla scena qualcosa che lo coinvolge, specialmente per chi appartiene alla mia generazione: i boomers. Sul palcoscenico parliamo delle Kessler, di Carosello, ma si arriva anche a tempi più recenti. Sono racconti molto intimi e, contemporaneamente, surreali. In un aneddoto il mio Io-personaggio dice di avere avuto una storia con Mara Venier, durante Domenica In… 

 

In questo spettacolo la parola si intreccia con la musica…

La struttura è molto simile a un mio precedente spettacolo Father and son, ispirato ai testi di Michele Serra e sempre con la regia di Giorgio Gallione: lo scenografo Guido Fiorato e l’autore delle musiche Paolo Silvestri sono gli stessi, così come uno dei due musicisti in scena, il chitarrista Marco Bianchi. Qualcuno ha definito La mia vita raccontata male come una sorta di melologo, perché i musicisti non abbandonano mai la scena. È un gioco costante di parole e musica: ci passiamo l’un l’altro la palla sul palcoscenico, via via improvvisando.

“Il pubblico è una via di mezzo tra un amplesso amoroso e una lotta libera. Il pubblico è un partner/rivale”

Claudio Bisio

 

 

Quale è il momento più emozionante in teatro: prima di entrare in scena, l’applauso finale o la risata che arriva dal pubblico?

In Compagnia siamo in otto, tra chi va in scena e chi sta dietro le quinte. Prima che inizi lo spettacolo, a sipario chiuso, stiamo tutti insieme, anche un po’ cazzeggiando: non sono uno che rimane chiuso da solo in camerino a concentrarsi. Però, c’è sempre un istante, quando il direttore dà il chi è di scena, che vivo con forte emozione: sento aprire il sipario e, improvvisamente, in un nanosecondo mi trasformo. Molti sono convinti che lo spettacolo parli di me, che vengano raccontati fatti della mia esistenza, ma in realtà rappresentiamo un testo teatrale ben scritto, con una drammaturgia e una struttura precise, in cui interpreto un personaggio. In quella frazione di secondo, che mi conduce verso il palcoscenico e l’incontro diretto con il pubblico, io non sono più Claudio ma divento quel ruolo lì. È vero, nell’essenza sono sempre Claudio, ma in maniera diversa.

 

Che cos’è il pubblico? Una sua definizione.

Nonostante siano quarant’anni che faccio teatro, ogni sera mi stupisco di quanto il pubblico sia davvero diverso di volta in volta. Ad ogni replica provo un nuovo stupore e lo stesso penso valga per gli spettatori presenti in sala: spesso mi conoscono e ricordano per Zelig o per trasmissioni più leggere, mentre in questo caso specifico si ride, ma c’è anche altro. È il teatro di prosa e molti sono sorpresi all’inizio dello spettacolo, così come anche io devo arrivare a capire il tipo di pubblico che mi sta davanti in quella determinata sera. Molti miei colleghi, per definire il loro rapporto con gli spettatori, parlano di una relazione amorosa, altri di una specie di lotta: per me, il pubblico è una via di mezzo tra queste due cose, tra un amplesso e una lotta libera. Il pubblico è un partner/rivale.