Una creatura fantastica. Intervista a Euripides Laskaridis
17 febbraio 2025
di Angela Consagra
Nello spettacolo si fa un grande uso del travestimento e anche del sentimento del grottesco, in qualche modo…
Sono un artista greco e, in generale, tutti noi greci ci troviamo di fronte ad aspettative molto forti che non riusciamo a soddisfare: sono cresciuto negli anni Ottanta ad Atene, con l'Acropoli sullo sfondo, e abbiamo sempre avuto questo riferimento, impossibile da superare. Da artisti veniamo etichettati come greci ed abbiamo, di conseguenza, sulle nostre spalle tutto il peso della nostra cultura, della filosofia, dell’Accademia, di autori come Socrate o Platone. Noi artisti greci tentiamo di vivere all'altezza delle aspettative nei nostri confronti e del nostro patrimonio storico-culturale. Ecco, dietro ai titoli dei miei spettacoli ci sono tutti questi strati, tante cose che entrano in relazione nella mia idea di teatro. In particolare, il mio background viene dal teatro. Ho una formazione in drammaturgia e al centro della mia invenzione è sempre presente una creatura, frutto della mia immaginazione. Può capitare che io l’abbia immaginata in sogno oppure, semplicemente, mentre sto passeggiando ad Atene o in qualsiasi altro luogo. In seguito, cerco, attraverso elementi molto essenziali, di portare in vita questa creatura ideata dalla mia fantasia, con una parrucca, un naso, un cuscino… Utilizzo questi semplici elementi e mi metto davanti allo specchio per cercare di dare una forma all’invenzione. Quando arrivo a guardarmi e a non riconoscere più me stesso, allora è il momento in cui mi viene veramente la voglia di dirigere quel personaggio e di portare in scena la sua storia. È così che sono arrivato ad utilizzare, oltre ai costumi, anche delle protesi, proprio per accentuare certe parti del corpo. Il senso del grottesco è qualcosa di fondamentale, un filtro attraverso il quale guardare alla vita. In questo senso, credo di avvicinarmi molto al tipo di lavoro svolto da Ionesco. Io guardo me stesso, ma contemporaneamente prendo le distanze e riesco a vedere la mia tristezza o malinconia. Soltanto allora rido di ciò che sono o penso: mi rendo conto che i problemi che mi intristiscono sono in realtà di piccola entità. Rido di come noi tutti, più in generale, ci prendiamo troppo sul serio. Il grottesco mi aiuta a usare una metafora per esprimere i miei sentimenti, anche parlando degli aspetti importanti della nostra esistenza, come l’amore, la morte o la guerra. Questi elementi visivamente così stravaganti e bizzarri, perfino aggressivi se vogliamo, in realtà non vogliono solo indicare la mostruosità e sostenere il mio desiderio persistente di creare qualcosa di stravagante o sperimentale sul palco. Si tratta, piuttosto, di comunicare umanità e amore: io spero che ciò appaia e che si capisca bene dal mio lavoro in scena.
“Quando arrivo a guardarmi e a non riconoscere più me stesso, allora è il momento in cui mi viene veramente la voglia di dirigere quel personaggio e di portare in scena la sua storia”
Euripides Laskaridis
Foto Pinelopi Gerasimou
Quali sono i suoi riferimenti cinematografici? E chi, più in particolare, considera come Maestri per realizzare il suo teatro?
La mia generazione non si è mai resa veramente conto del passaggio dal modernismo al post modernismo: siamo nati nell’era post moderna, in cui tutte le influenze diventano come un mix e diventa difficile capire cosa sia un’idea originale e cosa un’influenza ricevuta da altri. Viviamo in un'epoca dove, con un semplice click su YouTube, troviamo tantissimi materiali disponibili. Ed è anche per questo che il concetto stesso di autore e autorialità potrebbe essere messo in discussione sempre più in futuro. La sensazione più interessante ed emozionante, al tempo stesso, è riuscire ad essere consapevoli di ciò che facciamo sul palcoscenico, inventando un mondo e un personaggio.
Sicuramente io amo il cinema e ci sono tanti rimandi cinematografici nel mio spettacolo come, per esempio, il riferimento ai film di David Lynch: il modo in cui utilizzo le luci è indicativo di una struttura estremamente cinematografica. Siamo cresciuti nell’era post moderna – come detto prima – e ormai abbiamo superato quel periodo in cui eravamo abituati al grande narratore, a un Maestro che ci insegna e ci dice come si svolge la storia, ci indica cosa sta succedendo o cosa pensano i vari personaggi. Ritengo che al giorno d’oggi il pubblico possieda tutti gli strumenti giusti per arrivare a dare una propria interpretazione.
Non amo categorizzare o spiegare eventuali messaggi dello spettacolo: preferisco che sia il pubblico a lavorare con me e i miei collaboratori per creare una storia da raccontare. In palcoscenico noi abbiamo una nostra narrazione, alla quale lavoriamo ogni sera e che può cambiare costantemente grazie all’incontro e alla presenza reale del pubblico. Con il riscontro che ricevo dagli spettatori riesco a rinnovare il mio modo di fare teatro: è un po’ come un terreno che va innaffiato, con i nutrienti che derivano dalle persone con cui parlo e dalle sensazioni che arrivano dalla platea al palcoscenico. Anche per questo spettacolo non voglio dire precisamente di cosa si tratta: è una pura avventura visiva oppure si nascondono tanti messaggi al suo interno? È il pubblico, insieme agli attori, a scoprirlo. Vedo questa mia opera come un poema aperto, in modo tale che gli spettatori possano proiettare la loro interiorità sulla base della propria vita.
“Il grottesco mi aiuta a usare una metafora per esprimere i miei sentimenti. Si tratta, di comunicare umanità e amore: io spero che ciò appaia e che si capisca bene dal mio lavoro in scena”
Euripides Laskaridis
Foto Elina Giounanli