Un'emozione e una paura. Intervista ad Alessandro Benvenuti
22 novembre 2024
di Angela Consagra
Nello spettacolo Falstaff a Windsor interpreta Falstaff: c’è almeno una caratteristica che la fa sentire vicino a questo personaggio?
Falstaff sembro io! Sono io, di fronte al potere del Teatro. Ai tempi di Shakespeare, la Regina chiese che questo personaggio fosse sempre descritto in situazioni farsesche: anche una volta morto, lei voleva che rivivesse in scena perché si divertiva molto a vedere la goffaggine di questo gigione grassone. Ecco, io mi sento un moderno Falstaff, perché nel panorama del teatro italiano, quello ufficiale e più serio, provenendo dal cabaret sono ancora considerato un ragazzo che fa ridere. È un aspetto abbastanza presente nella mia vita e nel mio destino teatrale: nonostante l’amore e il rispetto che sento da parte del pubblico, spesso ancora permane come una sorta di pregiudizio verso chi impara questo mestiere dalla vita di tutti i giorni, nei teatrini e nei luoghi più off, e non dentro un’Accademia. Alla fine, Falstaff stesso di fronte al potere non trova un suo posto, sul palco di Windsor non possono stare “i folletti”: rimane solo l’asprezza di una condanna, come se l’ordine dovesse espellere questo corpo troppo grande di Falstaff. E infatti, lui dice ai servi: “Sono talmente vasto che non riuscite a farmi entrare dentro di voi”, subendo anche il tradimento di Enrico V che, dopo averlo fiancheggiato per l’intera vicenda, alla fine lo disconosce e lo bandisce dal regno. Riconosco un’assonanza con la condizione vissuta dal personaggio: il potere che spurga dalle proprie viscere, per non infettarsi, un gigione come Falstaff, un aristocratico ma con sangue plebeo addosso. Quando recito il finale mi commuovo spesso, perché quelle parole mi trasportano in un luogo di sentimenti dell’anima che appartengono alla mia sfera sentimentale, al mio privato di attore e di persona. È come se, in qualche modo, mi vedessi specchiato nel destino di questo panzone che viene massacrato da tutti, a cominciare dall’autore per volontà della Regina. Ugo Chiti ha scritto la Trilogia dell’antieroe - Nero Cardinale, L’avaro e Falstaff a Windsor - interpretati sempre da me e dagli attori di Arca Azzurra: forse è proprio Falstaff a cogliere il mio aspetto più intimo. Anch’io, come lui, ho utilizzato i codici dell’umorismo e del sarcasmo per liberarmi e realizzarmi.
“Anch’io, come Falstaff, ho utilizzato i codici dell’umorismo e del sarcasmo per liberarmi e realizzarmi.”
Alessandro Benvenuti
Riuscire a far ridere il pubblico è ancora qualcosa che la sorprende?
L’umorismo, diceva Totò, è una scienza esatta. Ed è proprio così: la comicità è matematica pura, è musica, con delle sue partiture precise. In questo senso, teoricamente so come preparare la sorpresa per il pubblico, dando la tempistica ad ogni battuta. Quando la gente ride, è come sentirsi dire grazie!, come avere fatto una cortesia regalando qualcosa di bello e di giusto. Mantengo ancora lo stupore verso il fatto che si possa campare e vivere facendo questo mestiere, lavorando con il proprio talento, poco o tanto che sia… L’idea di avere realizzato il mio sogno, essendoci riuscito da solo, attraverso una volontà ferrea e studi su studi autonomi per recuperare il non-studio ufficiale, è qualcosa di formativo e che ti accompagna sempre con umiltà e semplicità. Non smetto mai di ringraziare il pubblico che mi segue e che sento ridere alle mie battute.
Incontrare il pubblico è quindi sempre un’emozione?
È un’emozione e, anche, una paura. Stare sul palcoscenico rappresenta una sfida, non si può mai dare niente per scontato; ogni volta mi chiedo: “Riuscirò a sopravvivere anche stasera?” In scena interpreto dei ruoli che possono risultare non molto commestibili da parte del pubblico, non voglio essere semplicemente digerito da chi mi guarda: non cerco di piacere per forza a tutti. Tengo sempre presente l’idea di rimanere un po’ indigesto: non mi va di essere masticato dallo sguardo della platea. Non penso che si debba soltanto compiacere, ma cercare di fare le cose per essere coerenti con se stessi, prima di tutto. Non sono un tipo alla camomilla. Asprezza e dolcezza convivono nella mia scrittura rischiando a volte anche giudizi negativi da parte di quel pubblico che si è fatto un’idea di me, che non corrisponde a me. Ma io dico: “Ben venga ciò che deve venire, se questo era il mio volere”.
La sua collaborazione con Ugo Chiti e l’Arca Azzurra parte da lontano…
Loro sono la mia famiglia. Li stimo tutti, moltissimo. La compagnia dell’Arca Azzurra è una delle realtà teatrali più longeve della Toscana e per me, lavorare insieme, è qualcosa di davvero importante. Mi conoscono come nessun altro, nella mia forza ma anche nelle mie debolezze. Ugo Chiti è come un fratello, oltre ad essere colui che mi ha fatto innamorare della lingua toscana. Questo spettacolo mi ha fatto volere bene ancora di più a Ugo, perché il tempo l’ha reso più fragile: stiamo invecchiando insieme, confrontandoci ogni giorno sui nostri dubbi. La lucidità di Ugo, però, è sempre insuperabile: le cose che scrive sono giuste, ascoltarlo è qualcosa che ti colpisce, perché non spreca neanche un aggettivo o un pronome. Anche da parte sua ho visto una tenerezza nei miei confronti, considerando un mio fisico non sempre scattante, che necessita magari di una pausa in più… Falstaff a Windsor costituisce la conclusione di una Trilogia portata avanti in gruppo, condita di dolcezza e dal sentimento del tempo teatrale e umano condiviso. Tutto ciò è commovente: questo è il Teatro.