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Ionesco Suite
Secondo Workshop

Due attori della troupe del Théatre de la Ville di Parigi, Stephane Krähenbühl e Gérard Maillet, e il direttore Emmanuel Demarcy-Mota con Julie Peigne e Vincent Mambachaka, Consigliere per l’Africa del Théatre de la Ville. Un gruppo di giovani attrici e attori, già diplomati alle nostre scuole Orazio Costa e Oltrarno. Cinque giorni. Eugène Ionesco. Quattro mani, un nuovo diario di bordo. Unite i punti.

 

Riccardo Ventrella, Greta Bendinelli

Giorno 1

Equilibristi senza corda, ci rivediamo dopo due settimane. Siamo diversi, siamo gli stessi, siamo qui. Ed è già tanto. È quasi toccante avere qualcosa a cui tornare. 
Ricordarsi come si fa a respirare insieme, a fare un primo passo insieme, a buttarsi giù dal burrone credendo di poter volare. E ogni tanto siamo così fortunati che succede davvero.

 

Si forma la scena: qualche sedia, un tavolo, una platea. Ci resta da fare solo una cosa: giocare, ma sul serio.

 

Prima facevano girotondi. Ora sono in scena. Ora si gioca a fare sul serio. Non ci si passa più quella palla finta. Alcuni sono rimasti indietro a tenerla in mano, la palla. 
Immaginaria, altri hanno la responsabilità della palla vera. Ora ci si guarda con rispetto. Arriverà il conto di tutto questo. Qualcuno dovrà pagarlo. 

Foto Filippo Manzini

Giorno 2

Foto Filippo Manzini

Scene a due. Deliri a due.

Dialoghi che si intersecano con movimenti e interruzioni.

 

“Chi vuole della torta?”

“Questo è un uovo.”

“La chiocciola e la tartaruga sono la stessa bestia.”

 

E poi la mia preferita: “ho la passione per la verità.” Si deve avere la passione per la verità, il desiderio di essere sinceri e il coraggio di smascherarsi di fronte ad un pubblico. Ed è importante prendersi il tempo per far montare le cose, per riempirsi. Ma lo è anche lasciare sempre qualcosa di segreto che è solo tuo e che forse non rivelerai mai.

Vestiti bene, tutti vestiti bene, per giocare a fare sul serio. Si vede che serpeggia un po’ di crudeltà, le distanze vengono calcolate accuratamente. Chi sta scrivendo il conto che qualcuno dovrà pagare? Chi sarà l’assassino? Chi è il professore e chi l’allievo. Undici piccoli indiani. 

Giorno 3

Undici a tavola, come un’ultima cena un po’ sbilenca dove si assaporano i suoni delle parole come se li stessimo riscoprendo per la prima volta, come se fossimo morti e dovessimo ricordare come si fa a parlare, a toccare un bicchiere, a toccare l’altro. E poi il ritmo, la velocità, il tendersi tutti insieme in avanti. Sempre più avanti.

 

La violenza. C’è tanta violenza in queste parole scritte così tanti anni fa che fa quasi paura sentirle descrivere quasi perfettamente ciò che sta fuori da questo teatro oggi. Ma speriamo che di tutto questo resti ben più di un mucchietto di cenere.

 

Chi ha ucciso l’Uomo Ragno? Chi voleva essere Superman? 

Foto Filippo Manzini

Giorno 4

Foto Filippo Manzini

Come stare da soli insieme agli altri, come lavorare un monologo con un ensemble di persone in ascolto. Ci sono bambini, pesci, lampadari che crollano e poi c’è la domanda. La domanda. “Chissà se la domanda dipende dalla risposta, oppure se la risposta dipende dalla domanda? Questa è un’altra domanda. No, è la stessa.”

 

Ci hanno detto che siamo degli ottimi ascoltatori, che siamo sempre pronti a ricevere. Ma è cosa si fa con ciò che ci viene dato che fa la differenza.

E oggi abbiamo ricevuto tanto, anche una visita inaspettata. Ci siamo presi per mano, abbiamo chiuso gli occhi e quando dopo un po’ li abbiamo riaperti ci siamo ritrovati dall’altra parte di un ponte. Il grazie più grande va a chi ci ha guidato.

 

Sarebbe bello poter intervenire. Salvare qualcuno. Provo disagio. Da spettatore provo disagio. Soffro, dolore. In realtà non vorrei salvare loro, ma me stesso. Artaud, vieni tu e salvami. Levami questi pezzi di dolore, e lasciamo stare il sogno. Dolore, noli me tangere.

Giorno 5

Salutarsi con qualcosa di importante: le parole hanno un peso. Non stanno solo in bocca ma in tutto il corpo. E recitarle e basta non ci renderà attrici e attori migliori.

E allora è tempo di scoprirne di nuove, di dirle piano mentre si sbatte a terra un piede, di spiegarle mentre si difende la propria scarpa o si cerca semplicemente di rimanere in piedi.

 

Ogni tanto ce lo siamo scordati, ma alla fine di queste due settimane è stato bello sentirselo ricordare: lo scopo non è vincere, ma giocare. Da intendere in tutte le sue imprevedibili e bellissime declinazioni francesi. Ed è stato questo jouer che ci ha resi tutti, nessuno escluso, persone più ricche.

 

À bientôt
Ci sarete ancora, vero? Il treno è arrivato, che ore sono? Quasi le due, fa già giorno. 

Foto Filippo Manzini