Vai al contenuto principale

Il luogo della vita. Intervista a Roberto Andò

16 gennaio 2025

di Angela Consagra

Sarabanda - lo spettacolo di cui ha curato la regia con Renato Carpentieri, Alvia Reale, Elia Schilton e Caterina Tieghi – è la versione teatrale dell’ultimo film diretto da Ingmar Bergman. 

Sarabanda è il film-testamento di Ingmar Bergman. Il grande regista lo girò nel 2003 con una telecamera digitale, affidandolo a due attori simbolo della sua filmografia come Erland Josephson e Liv Ulmann. È concepito in dieci scene in cui, volta per volta, si avvicendano due dei quattro personaggi che ne compongono il disegno. Una struttura musicale che allude alla sarabanda, una danza per coppie solenne e lasciva che venne proibita nella Spagna del sedicesimo secolo, per poi essere adottata da grandi compositori come Bach o Händel. Sarabanda è l’opera più radicale di Bergman e sembra riconsiderare i grandi quesiti che il maestro svedese aveva affrontato nelle pellicole precedenti. Anche se è ritenuto un sequel di Scene da un matrimonio, in realtà è un film del tutto autonomo. Conosciamo le parole con cui il regista introdusse il lavoro alla troupe e agli interpreti: “Quello che stiamo per fare può apparire semplice: un prologo, dieci dialoghi, un epilogo. È bene che sappiate che sarà estremamente difficile. È la mia ultima regia: esigerò il massimo da me e da voi. Non avrò pietà”. Parole chiare, come sempre. Parole che mostrano quanto considerasse cruciale l’opera che aveva in mente. La famiglia, la solitudine, l’arte come possibile redenzione, la vecchiaia, la morte sono alcuni dei temi attorno a cui ruotano i dialoghi di quella che si può definire una vera e propria pièce di teatro (Bergman fu a lungo indeciso sulla forma più congeniale cui affidare l’opera che stava concependo, se teatro, radio o cinema). Temi che sono ben presenti anche nella grande drammaturgia di Strindberg, di Ibsen, di Fosse, in una continuità che, al di là dell’originalità delle singole voci, tratteggia le linee di un preciso paesaggio esistenziale. 

“Il pubblico è costituito da una pluralità di individui che a volte si accendono tutti insieme: se questo avviene, in quel momento si crea la felicità, è una comunità che si riunisce in questo qui e ora di cui il teatro è messaggero.”

Roberto Andò

 

 

Quando pensa ad una regia, qual è l’aspetto da cui parte?  

Per quanto riguarda il teatro io sono tra coloro che ritengono si debbano fare dei testi contemporanei, è un nostro dovere proporli. In generale mi piacciono quei testi che mantengono il mistero e non rivelano subito l’identità dei personaggi, dove prevale il non detto… È vero che l’attenzione allo spazio è per me fondamentale: di solito è da lì che parto per l’ideazione di una regia. Forse perché il mio avvicinamento al teatro nasce da un momento in cui era forte la contestazione e questa sensazione mi è rimasta sempre addosso, nel senso che ho bisogno di mettere delle basi. Kantor diceva una cosa molto bella: “Per recitare in teatro prima bisogna trovare il luogo della vita”, e in un certo senso io sono fedele a questa premessa. 

 

 

“Per quanto riguarda il teatro io sono tra coloro che ritengono si debbano fare dei testi contemporanei. In generale mi piacciono quei testi che mantengono il mistero e non rivelano subito l’identità dei personaggi, dove prevale il non detto”

Roberto Andò

Lei ha sempre alternato cinema e teatro… 

Di solito si va per esclusione, mentre io ho sempre incluso le curiosità e gli interessi che ho coltivato parallelamente alla passione per il cinema. Giovanissimo mi sono avvicinato al teatro e in seguito ho trovato che fosse un privilegio poter alternare la regia teatrale con la regia cinematografica, con l’opera e la scrittura. In Italia il teatro è distante dal cinema quanto non lo è in altri Paesi, dove gli attori passano di continuo dal teatro al cinema. Da noi è meno consueto, anche se forse negli ultimi anni questo processo ha conosciuto un incremento perché gli attori hanno capito l’importanza del teatro e lo considerano un arricchimento. Sono due codici totalmente diversi ed è molto bello avere l’opportunità di passare dall’uno all’altro… Sono anche due modi di vita differenti. Il cinema è un’avventura che dura degli anni perché dal momento in cui scrivi un film, fino ad arrivare sul set e poi vedere la tua opera che esce sugli schermi, passa davvero molto tempo: tutto ciò implica di avere un allenamento, una resistenza e una tenacia costanti. Il teatro si esprime in uno spazio chiuso con pochi attori e il lavoro spesso consiste nel trovare il senso più nascosto di una frase, di ogni singola battuta… Le due dimensioni sono diverse, però altrettanto appassionanti. 

 

Che cos’è per Lei il pubblico? Quando dirige pensa mai ai suoi potenziali spettatori? 

Per me il pubblico è una drammaturgia. E questo è cambiato durante il mio percorso, all’inizio ci pensavo di meno… Mi ha illuminato molto una riflessione di Bertolucci sul pubblico che si chiedeva: “Se io non desidero il pubblico, perché il pubblico dovrebbe desiderare me?”, e da quel momento, iniziando a considerare il pubblico, il suo cinema è cambiato. La questione è che ne tieni conto perché desideri che il tuo lavoro abbia un senso per un numero ampio di persone e ciò definisce anche quello che si intende come drammaturgia, costruita proprio in relazione con il pubblico. Il pubblico è costituito da una pluralità di individui che a volte si accendono tutti insieme: se questo avviene, in quel momento si crea la felicità, è una comunità che si riunisce in questo qui e ora di cui il teatro è messaggero. Il teatro è un luogo di resistenza, di passione e di interesse verso l’uomo.