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Il sangue che circola nelle vene. Intervista a Geppy Gleijeses

29 aprile 2025

di Angela Consagra

Le cinque rose di Jennifer di Annibale Ruccello è un testo che le è molto caro, messo in scena più volte nel corso del tempo. Che significato assume oggi per Lei questo spettacolo?

Assume un significato estremamente preciso. Oggi ti trovi a verificare il funzionamento di ogni componente drammaturgica presente nel testo, oltre al fatto che lo scorrere del tempo sottolinea quest’opera come un capitolo fondamentale della tua vita. È un’interpretazione importante, uno spettacolo che non ho mai abbandonato e su cui sono tornato più volte. Soprattutto io ho avuto la fortuna di frequentare realmente quel mondo. Il travestito femminile spesso viene scambiato erroneamente con il femminiello, che invece in genere si trucca un po’ ma non si traveste. I personaggi raccontati da Annibale Ruccello sono anime di confine, delicatissime e meravigliose. Semplicemente non hanno avuto il coraggio o la volontà di compiere il grande passo e cambiare, anche fisicamente, il proprio sesso. Come Pulcinella, il travestito non è né bianco, né nero e viene rifiutato dai bianchi perché mezzo nero e dai neri perché mezzo bianco; il travestito non è un uomo, né donna ma una creatura preziosa, un’anima ermafrodita. Ho frequentato il loro ambiente alla fine degli anni Settanta, quando partecipai a una trasmissione realizzata allora da due sconosciuti: Cesare Zavattini e Roberto Benigni. L’Italia quando ride era il nome di questo programma radiofonico: eravamo tutti giovanissimi e giravamo l’Italia con il registratore per raccogliere barzellette, storie curiose o anche fatti divertenti. Ricordo che andavo sempre nei Quartieri spagnoli a Napoli e incontravo queste figure dei travestiti, con le loro storie legate a tutti i generi: la loro vita, tanti aneddoti seri o più malinconici, insieme a episodi spassosi. Parlavano sempre con un’anima limpida e trasparente, con una grande serenità, anche se l’esistenza che conducevano non era affatto facile. Questi esseri umani mi sono rimasti impressi nel cuore, credo di averli conosciuti nel loro lato più profondo e di riuscire a interpretarne bene il carattere. Dobbiamo considerare che, evitando la “maniera” (anche se Ruccello invita nelle note a mantenere una cantilena napoletana) e naturalmente il macchiettismo, interpretiamo personaggi sovente debordanti che già interpretano a loro volta un ruolo e una condizione. E quindi si deve essere attentissimi a non raddoppiare il travestimento e, quindi, l’interpretazione. 

 

 

La scena è ambientata, questa volta, a Scampia (uno dei luoghi più complessi, poveri e popolari di Napoli) ma conservando sempre quell’atmosfera tipica dei bassi dei Quartieri spagnoli: si sente il profumo del caffè o della salsa di pomodoro, tutto è estremamente vero ed estremamente credibile. Fuori dai bassi generalmente si urla, si gioca, ci si prende in giro: è un mondo curioso, variopinto e autentico. In scena entra questa figura, Anna, interpretata da mio figlio Lorenzo Gleijeses, un personaggio dal timbro quasi cinematografico e, infatti, sembra uscito da film come Dressed to kill di Brian De Palma o L’inquilino del terzo piano di Roman Polanski: inquietante, magro, assurdo e misterioso, facilmente immaginabile come un assassino…  Mio figlio ed io abbiamo, dal punto di visto recitativo, due caratteri diversi: lui è lunare, mentre io forse più solare.  In passato avevo interpretato lo spettacolo con un indimenticato straordinario attore come era Gennaro Cannavacciuolo, che aveva dato una connotazione diversa a questo carattere: una signora molto divertente. Penso che il linguaggio napoletano sia universale: anche quando non comprendi la singola parola, ciò che non capisci si intuisce. Importante è sentirne l’umore.

 

“I personaggi raccontati da Annibale Ruccello sono anime di confine, delicatissime e meravigliose”

 

Quale può essere oggi la forza di un autore come Annibale Ruccello?

C’è ancora tanto da dire su Ruccello, perché al di là di alcune lucide analisi, ancora l’emozione fa velo sull’approfondimento della vera natura di questo grande autore. Di lui si deve dire però che tra i contemporanei di caratura importante, quasi tutti napoletani, egli aveva questo senso straordinario della composizione drammaturgica, più che della brillantezza del linguaggio, della “crastola” linguistica abbagliante (che pure aveva in larga misura). Annibale possedeva questo dono singolare di costruire delle strutture perfette di commedia e di dramma, delle storie circolari e complete in cui riusciva a calarci con la sapienza di un talento folgorante per un ragazzo di venticinque anni. Annibale è morto a trent’anni, oggi avremmo la stessa età. Il rimpianto, la stima, il dolore e lo stupore per una sorte così assurda non si sono attenuati in questi anni e non svaniranno mai.

Una sua definizione del pubblico; che cos’è per Lei?

Direi che il pubblico è come il sangue che ti circola nelle vene. Al di là delle scosse di adrenalina e della droga che, in qualche modo, possono rappresentare il pubblico per ogni attore, al cospetto degli spettatori ci animiamo, nel senso che cominciamo davvero a vivere. E proprio grazie a questo sangue, alla linfa che il pubblico ti trasmette. Il teatro è lo spazio dove gli attori hanno la possibilità di modificarsi ogni volta, entrando totalmente in un personaggio per vivere quell’esistenza che si racconta sulla scena. In seguito, come attori torniamo in noi stessi, ma quello che posso dirti con certezza è che le scorie di tutti i personaggi che hai interpretato, mille schegge di quei ruoli, ti rimangono appiccicate addosso. Ormai, nel mio essere attore, mi definisco come un collage di personaggi, inclusa Jennifer, protagonista del lavoro di Annibale Ruccello.

 

“Fuori dai bassi generalmente si urla, si gioca, ci si prende in giro: è un mondo curioso, variopinto e autentico”

 

E, in particolare, che cosa dello spettacolo Le cinque rose di Jennifer le è rimasto addosso?

Per me interpretare sul palcoscenico Jennifer è qualcosa di bellissimo, ma al tempo stesso molto doloroso. Mi immergo profondamente nell'umana pietas che ti costringe a provare quest’anima fragile. Si entra dentro al personaggio: ti diverti, dal punto di vista recitativo giochi con lui, ma sempre in maniera seria e immedesimata. Il lavoro attoriale a cui occorre attingere è, in questo senso, assolutamente stanislavskiano, anche se bisogna rapportarsi al carattere sulla scena come se si trattasse di un gingillo, un piccolo vetro prezioso di Murano. Non smetto mai di accarezzare questo personaggio, che rimane sempre in me.

 

“Interpretare Jennifer è qualcosa di bellissimo, ma al tempo stesso molto doloroso. Mi immergo profondamente nell'umana pietas che ti costringe a provare quest’anima fragile”