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Il sentimento del contrario. Intervista a Gabriele Lavia

07 marzo 2025

di Angela Consagra

Perché ha scelto di mettere in scena Lungo viaggio verso la notte di Eugene O’Neill?

Questo autore mi frullava in testa da molto tempo, anche se non proprio con questo testo in particolare. Il titolo originale dell’opera è Long Day’s Journey into Night: talvolta la traduzione fa riferimento alla giornata verso la notte, ma il termine viaggio somiglia, anche se non precisamente, al titolo che dà l’autore. Qualche anno fa mi ero quasi convinto di mettere in scena Desiderio sotto gli olmi, un altro capolavoro di O'Neill, ma alla fine, per ragioni di carattere pratico, ho rinunciato. Per quanto riguarda la scelta di Lungo viaggio verso la notte, in genere adotto un sistema molto semplice per decidere gli spettacoli da allestire. Io vado nel mio studio a casa – uno studio piuttosto piccolo che si trova al di là di una porticina in un soggiorno piuttosto grande: ho sempre considerato come un destino segnato, come qualcosa che comunque intimamente mi appartiene, il fatto di avere lo studio sempre in uno spazio raccolto, raggiungibile dopo avere attraversato una grande sala – faccio un girotondo su me stesso e ad occhi chiusi punto un dito verso la libreria. Da quella parte verso cui il dito si indirizza, comincio a prendere tutti i libri: le scelte, diciamo così, metafisiche sono sempre quelle che alla fine funzionano di più. Dopo avere individuato questo testo di O’Neill mi sono spaventato: ho cominciato a studiarlo, mi sono chiesto: come lo mettiamo in scena? L’opera è di O’Neill, ma è un mio spettacolo; quindi, deve assomigliare anche un po’ a me… Io sono un metteur en scène, nel senso che racconto attraverso il palcoscenico – luci, scenografia, costumi – una storia di un autore. In una stanza colma di libri si muove il mio personaggio, i libri sono dappertutto: ho pensato allora che quest’uomo fosse come dominato dai libri. Quello che vediamo in scena non è puramente Lungo viaggio verso la notte di O’Neill, ma è la messinscena pensata da me del testo: se dovesse allestirlo O’Neill stesso probabilmente lo realizzerebbe in un modo completamente diverso. 

Questo spettacolo è la rappresentazione dell’opera di O’Neill ideata da un regista che, in qualche modo, è come se raccontasse anche la sua storia. È bene fare la regia e raccontare una storia, attraverso gli attori che recitano. Ogni attore è unico, per cui lo stesso ruolo interpretato da attori diversi risulterà sempre nuovo. Ho avuto la fortuna di lavorare con questi attori, sono quelli giusti: prima di tutto umanamente e poi per la parte che sono chiamati a interpretare. 

 

“Il caos disordinato è ciò che dobbiamo ricercare per trovare un ordine nascosto e misterioso. In scena occorre sempre dare l’idea che tutto accada per caso o per necessità del caso"

 

E dal punto di vista scenico come si sviluppa l’ambientazione?

È un testo americano, però tra le prime cose da fare occorre toglierlo da quel clima americano per collocarlo in una certa zona narrativa: la nebbia, la finestra… Ho immaginato un palcoscenico dove fossero appoggiati gli oggetti: perfino la finestra si può spostare un po’ di qua e un po’ di là, anche lei è come appoggiata. Tutto appare provvisorio. Come dice Eraclito, in un suo frammento a me molto caro e che ripeto spesso agli attori quando cominciamo a lavorare insieme: come un cumulo di cose gettate a caso, la più bella cosa ordinata. Queste parole di Eraclito sono importanti, perché enunciano il sentimento del contrario: il caos disordinato è ciò che dobbiamo ricercare per trovare un ordine nascosto e misterioso. In scena occorre sempre dare l’idea che non ci sia niente di deciso e, anzi, che tutto ci accada per caso o per necessità del caso.

Come vive il rapporto con i personaggi che porta sulla scena?

Tra la parola scritta e quella detta c’è una grande differenza. È come guardare un piatto di pastasciutta oppure mangiarlo: per assimilare un’opera bisogna masticarla, inghiottirla, digerirla, solo allora si arriva all’arte della recitazione. Dico spesso ai miei attori: non ci dobbiamo mettere addosso il testo come se fosse una comoda vestaglia o un vecchio paio di pantofole; il testo deve far parte di noi, essere vissuto come un cibo un po’ indigesto, bisogna pensarci, provarlo fino in fondo per digerirlo. Rainer Maria Rilke, un mio poeta di riferimento, diceva che importante è ricordare, ma ancora più importante è dimenticare: soltanto quando un ricordo è stato intensamente vissuto ed è diventato carne, sangue, sudore, allora, soltanto allora, può nascere un verso di poesia autentica.

 

“Il teatro si fa insieme con il pubblico ed è un processo intimo, profondo, che non avviene in superficie, ma in un sottopalco dell’anima”

 

Per Lei che cos’è il teatro?
È una domanda molto importante perché mi stai chiedendo in quale momento io incontro me stesso ed è il punto più difficile. Il teatro si fa insieme con il pubblico ed è un processo intimo, profondo, che non avviene in superficie, ma in un sottopalco dell’anima. Recitare è come quando cambi canale con il telecomando, ma non arrivi mai a quello giusto. È come un pittore che cerca proprio quel colore ma non lo trova. Le ultime parole dette da Braque prima di morire sono state: “Datemi il mio blu!”. Questo ci dice che Braque fino all’ultimo istante ha cercato il suo colore, quel Dio del blu che non è mai riuscito a trasferire su una tela. Quindi per me il teatro, in linea di massima, è una sofferenza di cui non si può fare a meno.