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Per un mondo migliore un atto pubblico. Intervista a Daniel J. Meyer

21 novembre 2024

di Angela Consagra

Partiamo dal titolo, A.K.A (Also Known As): come nasce questa scelta?

A.K.A Also know as prende il significato del termine alias. È un titolo che ho scelto perché il giovane protagonista del testo ascolta spesso la musica hip hop: AKA appartiene al linguaggio urbano e viene molto utilizzato dai ragazzi. Mi sembrava una parola davvero appropriata per rappresentare un’opera incentrata sul tema dell’identità: noi siamo quello che vogliamo essere o, piuttosto, siamo ciò che gli altri decidono per noi? Scegliamo la nostra identità o diventiamo come gli altri vogliono vederci? 

 

È difficile definire la parola identità?

Sì, molto difficile, ma credo che sia importante difendere questo concetto nel mondo in cui viviamo. L’identità è tutto ciò che desideriamo essere, quindi cambia continuamente. Io stesso, per esempio, sono tante cose: faccio lo scrittore, ma quando sto con i miei amici parlo e mi relaziono a loro in un altro modo. Pertanto, l’identità mantiene in sé tante sfaccettature e diversi strati; inoltre, oggi il mondo in cui viviamo è talmente rapido: facile confondere e mescolare le etichette che ci definiscono. Identità è sinonimo di complessità: occorre vedere questa complessità ed essere pronti ad affrontarla.

 

Oggi si parla costantemente di confini e differenti identità. Il testo di questo spettacolo parte da una riflessione sulla vita quotidiana, per ampliare il pensiero alla nostra società attuale?

È un testo importante, perché ci mette in connessione con i giovani. Spesso confondiamo il tema dell’identità con ciò che vogliono farci credere: la guerra segue un tipo di logica, ma se al di là degli scontri nazionalistici ci soffermiamo invece sulle persone, se ci guardiamo gli uni con gli altri negli occhi, ci accorgiamo che i problemi non esistono più. Quando condividiamo lo stesso sguardo è difficile essere razzisti o maschilisti. Faccio sempre un esempio: in un salvataggio in mezzo al mare non chiedi di che nazionalità è la persona che stai aiutando, semplicemente tendi la mano. Si tratta di una questione umana. Purtroppo, quello che accade è che la politica non guarda all’essere umano: pone delle etichette ben definite e nascono i conflitti. Questo aspetto costituisce la disumanizzazione della nostra realtà: si etichettano le identità, la nazionalità viene assimilata all’identità. Ma non è così: è proprio l’identità a renderci speciali nella nostra singolarità, che poi entra in relazione con il resto del mondo.

“Il teatro non è un atto privato:

è un atto pubblico, e va inteso come tale”

Daniel J. Meyer

 

“Yo soy de aquí, pero también de allá” (Sono di qui, ma anche di là)”: sono parole sue. Lei è ‘un cittadino del mondo’?

Sono nato in Argentina, vivo da vent’anni a Barcellona (e sappiamo già bene la problematica di questi luoghi, a volte considerati spagnoli e a volte catalani), i miei antenati provengono dalla Germania, con ascendenze dalla Polonia, Moldavia e Russia, però della Bielorussia, che forse a quel tempo era Ucraina. La mia famiglia oggi vive in altri Paesi; insomma, se mi chiedono: chi sei? Io sono tutto questo. Catalano, argentino, autore, regista, nella vita ho anche un cane che amo molto… È l’insieme di più elementi che contribuisce a definirmi. Mi è toccata in sorte la storia di una famiglia che è sempre stata emigrante: potrebbe essere una disgrazia, però diventa un’opportunità. Ho un passaporto europeo che mi permette di stare dove voglio, connettendomi con le persone nel mondo, anche per lavoro (penso ad Angelo Savelli e a Giancarlo Mordini, al Teatro di Rifredi che adoro, a tutti i teatri): amo viaggiare e conoscere come vive la gente negli altri luoghi, ciò rappresenta un beneficio dell’esistenza. Ma esistono persone senza questa fortuna: emigranti che non possono muoversi. Sono esseri umani, preziosi, e noi dobbiamo lavorare per riaffermare il loro valore.

 

 

Filippo Manzini

Senza dimenticare la cultura originaria che identifica ogni Paese, lo scambio che deriva dall’emigrazione è sempre una ricchezza?

Penso che quando un luogo è aperto e rimane in ascolto all’influenza di altre culture ci guadagna sempre. Basta anche solo partire dal cibo: tutti conosciamo il sushi o siamo abituati a mangiare l’hummus. Oppure spesso usiamo parole inglesi per arricchire il nostro linguaggio, ascoltiamo la musica straniera: non bisogna abbandonare la propria essenza, il modo in cui nascendo abbiamo imparato a relazionarci e a costruire le nostre radici, ma tutto ci unisce agli altri e conoscere l’altro da te aiuta il nostro stare al mondo.

 

A.K.A., frutto della nuova drammaturgia internazionale, è interpretato da Vieri Raddi, giovane talento italiano, l’autore delle scene è l’artista contemporaneo Skim…  È uno spettacolo pensato per il presente, ma che guarda al futuro?

Non ho scritto questo testo pensando esclusivamente ai giovani, l’importante è riuscire a comprenderci con rispetto, giovani e adulti. Certamente il protagonista è un ragazzo, che si esprime con un linguaggio giovanile. Sono i giovani che cambieranno il mondo, sono loro che possono darci una speranza per un futuro migliore. Il messaggio di questo lavoro è antirazzista, richiama a quei valori umani universali, tanto fondamentali oggi in una dimensione fatta di divisioni e guerre.

 

Quando scrive pensa mai al suo pubblico futuro?

La verità è che non penso mai troppo a ciò che mi accingo a scrivere. Ho scritto il testo di questo spettacolo in una notte, tutto di seguito, naturalmente “la migliore notte della mia vita…”. Scrivere per il teatro è un rituale che condividi con gli spettatori: tante persone si incontrano e viene raccontata una storia. Stiamo tutti vicini, in un uno spazio teatrale, che così deve essere pensato. Il teatro non è un atto privato: è un atto pubblico, e va inteso come tale.