Senza Ionesco, ma con “Ionesco Suite”. Teatro e cooperazione dall’Europa all’Africa
28 marzo 2024
di Riccardo Ventrella
La fortuna critica di Eugen Dimitri Ionescu, Eugène Ionesco per i francesi, di cui oggi ricorrono i trent’anni dalla morte, è stata sempre mutevole, anche in quell’Oltralpe che lo aveva adottato e lanciato nell’empireo dei drammaturghi. Ha pesato su di lui la sua collocazione in una generica area “di destra”, alla quale indubbiamente e talora confusamente apparteneva, mai condonata fino in fondo dalla gauche francese; e, dal lato romeno, il rifiuto che sempre lo caratterizzò di scrivere nella propria lingua madre. Anche il ritmo delle rappresentazioni dei suoi testi ha seguito la stessa altalena, tra momenti di fulgore e altri di relativo oblio.
Il nostro incontro con Ionesco Suite, pastiche di testi creato dalla troupe di Emmanuel Demarcy-Mota, ben prima che arrivasse a essere il direttore del Théâtre de la Ville di Parigi, data 2018, quando lo spettacolo si poteva già definire identitario di un progetto culturale che aveva espresso anche una importante messinscena del Rinoceronte. Leggero da trasportare, di straordinario effetto e straordinariamente recitato, Ionesco Suite era il vettore ideale per tornare a familiarizzare con le storie del drammaturgo franco-rumeno. Poi venne qualcosa che avvicinò la realtà a quell’assurdità del reale che quei testi propugnavano, la pandemia. Fu allora che l’inquietudine divenne reale, e che tutti sentirono propria l’umana e patetica resistenza di Berenger che si oppone al diventare rinoceronte. In quel frangente vedemmo lo spettacolo più volte, online e in una commovente veglia di riapertura degli spazi teatrali. Finalmente fu possibile mostrarlo a Firenze, con un successo che travalicò il fatto che non fosse in italiano tale e tanta era (ed è) la bravura degli attori.
Parve la “piattaforma” giusta per sperimentare il progetto dell’Attrice e l’Attore Europei, la ricerca di un performer che dimentichi che esistono lingue e Paesi per miscelare il proprio essere con quello di altri performer, di altre lingue e altri Paesi. La troupe francese accolse un nostro esponente per sera, disposto a “lasciare” per qualche momento il suo personaggio o a vedersi raddoppiato, a cambiare partner con uno magari più giovane, a vedere i contorni di una prestazione definita negli anni smarginarsi per qualche momento. Questo fu il secondo Ionesco Suite fiorentino, che dette poi luogo alla versione “africana” portata in ottobre in Camerun, questa volta a tre diverse nazionalità, alla ricerca di un diverso tipo di cooperazione culturale tra continenti.
Proprio lì, in quel singolare luogo del mondo dove la parola “teatro” non esiste, e l’azione stessa del teatro ha più a che fare con le forme del narrare, del tramandare, del contrassegnare passaggi fondamentali della vita della società, ecco che l’anarchico atipico Ionesco, tra i figli più fulgidi e meno celebrati del più autentico spirito novecentesco, diviene fondante architettura di una ricerca che mira a trovare un ruolo per il teatro, se non nel nuovo millennio, almeno nel nuovo secolo, oltre che un diverso modo di cooperare tra continenti. L’entusiasmo delle sale piene a Yaoundé e Douala, la ricchezza del confronto tra culture, la saldatura tra visioni del mondo differenti, fanno capire quanto ancora l’agire teatrale possa avere un significato rilevante per l’Uomo, quale che sia la sua provenienza.
Ciò che tanto affascina in Ionesco è il continuo stato di tensione con l’incomprensibilità della vita, elemento che accomuna, nel filo rosso dei trascorsi cento anni, personalità come Kafka, Buster Keaton, Beckett e Ionesco, grazie a un evento imprevedibile e trasmutato in prospettiva feconda per il futuro. Come dice la signora Smith nella Cantatrice calva, l'esperienza insegna che quando si sente suonare alla porta è segno che non c'è mai nessuno: ed è quel nessuno che, in fondo, cerchiamo.