Un classico contemporaneo. Intervista a Rocco Papaleo
09 gennaio 2025
di Angela Consagra
Come si caratterizza questa messinscena dell’opera di Nikolaj Gogol L’ispettore generale?
L’adattamento e la regia realizzati da Leo Muscato per questo testo di Gogol si basano su una sintesi dell’opera originaria: Leo ha ridotto i cinque atti in uno unico, la pièce mantiene comunque un’atmosfera molto filologica. La scenografia è simbolica, più che realistica, ma l’ambientazione è tipicamente russa. Lo spettatore si ritrova immerso nell’idea della visione di un luogo sperduto nella steppa, un posto dove si muore di freddo. Tutto l’impianto scenografico - incluse le luci - è davvero suggestivo. In scena si muove una Compagnia strepitosa, composta da tredici attrici e attori molto bravi: c’è intesa tra noi, ci muoviamo con un solo respiro. Al pubblico presente in sala arriverà la sensazione di assistere a uno spettacolo divertente: si tratta di un classico, una grande commedia degli equivoci e noi abbiamo cercato di fare prevalere proprio questo aspetto più ironico, ma senza tralasciare il rimando satirico e polemico nei confronti del potere dettati dalla volontà dell’autore. L’ispettore generale si prende gioco della piccolezza morale di chi detiene un potere e si ritiene intoccabile. Una critica accesa al potere e alla corruzione che anima la stanza dei bottoni. Ed è proprio questo particolare aspetto della rappresentazione a rendere attuale la messinscena: è la forza dello spettacolo, perché proietta direttamente il pubblico nel mondo contemporaneo. Abbiamo mantenuto un’ambientazione ottocentesca, ma il testo è attualissimo.
“In scena si muove una Compagnia strepitosa, composta da tredici attrici e attori molto bravi: c’è intesa tra noi, ci muoviamo con un solo respiro”
Rocco Papaleo
“Noi attori dobbiamo trovare il livello giusto per accendere quella comunicazione di cui il pubblico ha bisogno: dobbiamo entrare, attori e spettatori, in una comunione reciproca”
Rocco Papaleo
Regalare un sorriso al pubblico è uno dei suoi obiettivi?
Sì, l’intento è di essere terapeutici e riuscire a dare sollievo al pubblico che ti sceglie. Nella vita io amo guardare anche cose più dure o dolorose, ma quando tocca a me proporre qualcosa di mio ricerco sempre l’effetto terapeutico, sia in teatro che nei miei film. Noi attori dobbiamo trovare il livello giusto per accendere quella comunicazione di cui il pubblico ha bisogno: dobbiamo entrare, attori e spettatori, in una comunione reciproca.
“Amo il cinema, ma ho bisogno del palcoscenico”: sono parole sue.
I film, una volta finiti, è come se non ti appartenessero più. Continuano, per esempio, a ridare in TV i film che ho interpretato anni fa: adesso vorrei cambiare tutto ma non posso… Quando ho girato i miei film, dopo averli scritti e diretti, mi è capitato di non volere uscire più dalla sala di montaggio: starei lì tutta la vita continuando a fare piccole modifiche, ma ad un certo punto te lo levano il film perché deve uscire al cinema. Alla fine, però, non sono così scontento dei film che ho fatto! Ma è il teatro che non ha rivali nella mia concezione dell’esibizione. È una performance in cui la curva dell’emozione si vive fino in fondo, perché il teatro non è mai uguale, anzi cambia nel momento stesso in cui lo si fa. Quello che accade nella serata, l’essenza dello spettacolo, vorrei che fosse una sorta di rito laico e dunque cerchiamo in tutti i modi, dal palcoscenico, di essere empatici. L’applauso del pubblico che ti colpisce in maniera diretta in teatro può essere veramente una droga, anche se mi imbarazza sempre un po’ stare lì a riceverlo… Non c’è niente da fare, non mi ci sono ancora abituato fino in fondo.
Per Lei che cosa significa affrontare un nuovo personaggio? È sempre un viaggio?
Direi che ogni giorno si può parlare di compiere un viaggio: dal momento in cui ci si sveglia fino a quando si va a dormire, e poi il viaggio continua ugualmente: si entra nel mondo dell’onirico e dei sogni. Essere in viaggio è una condizione profondamente esistenziale ed ogni passo che muovi, ogni sguardo che dai, indica sempre un passaggio: sono metri che si percorrono in avanti e la vita che va...
E non si arriva mai?
lo penso proprio di no. Comunque, è bello credere che noi, come esseri umani, non arriviamo mai ad un punto di arrivo. Non ci si ferma mai e anzi il nostro movimento è perenne.